È un pezzo di vita che se ne va. Per milioni di persone. Per un uomo che ha vissuto a loro fianco. È un pezzo di storia del tennis, fatto di meraviglie, di trionfi, di lacrime, di sospiri, e dell'impossibile desiderio che tutto resti com'è. Eternamente. Roger Federer lascia con una lettera su Instagram: tra 8 giorni, alla Laver Cup, comincerà il suo ultimo viaggio nei nostri sogni. In una squadra europea in cui sono radunati anche Nadal, Djokovic e Murray, perché questo viaggio non si può fare da solo, «ed è grazie ai miei avversari che ho potuto giocare tante partite epiche che mai dimenticherò». Anche se da solo si può diventare il simbolo - irrazionale, è vero - di quello che tutti noi vorremmo essere. E che ha vissuto per noi. Mentre noi soffrivamo per lui.
Non c'è partita, non c'è mai stata: è il Signor Tennis. Inutile, perfino, litigare sul Più Grande della Storia. Chiunque può avere opinioni diverse, per ogni epoca. Ma nessuno, come Roger, ha riassunto il meglio mettendolo tutto dentro un giocatore: la forza, l'eleganza, la fantasia, la passione, la classe, il fair play, il coraggio. Ed anche, diciamolo, la testardaggine. Così uomo, così mito, così amato. La prima volta dei suoi 20 Slam fu a Wimbledon, 2003, e non poteva esserci luogo migliore. Tono su tono, leggenda su leggenda. Lì dove aveva battuto il suo idolo Pete Sampras due anni prima, sollevò la coppa, e luce fu. Non è solo per come sapeva tenere la racchetta, per quello che sapeva già fare. Si capì subito che fosse per quell'aura che lo ha sempre circondato, pure nelle occasioni più banali: non ha mai avuto cose clamorose da dire, ma quando parla è come se il mondo si fermasse per rispetto. È il discorso del Re, ogni volta.
Non è neppure questione di record: non chiuderà la carriera con più Slam vinti, gli resta il primato di settimane consecutive da numero uno (237) ma non il numero complessivo, in mano a Djokovic. Il tempo gli ha giocato brutti scherzi, il ginocchio che lo ha definitivamente fermato a 41 anni gli infligge l'onta di uscire di scena dopo aver perso il suo ultimo set ufficiale 6-0. Contro Hurcacz, nel 2021, ma soprattutto a Wimbledon, praticamente una nemesi. «Potremo dire ai nostri nipoti di averlo visto giocare», disse però il giornalista britannico Martin Simon. E forse solo ora ci accorgiamo di quanto sia vero.
E così ecco la lettera, commovente («Piango come lui, purtroppo però non gioco a tennis allo stesso modo», scherzò una volta Andy Murray). Lacrime che ha sparso per ogni grande vittoria e che molti hanno sparso con lui. Le stesse, anche, versate dopo i due match point svaniti per un centimetro nella finale del 2019 persa al tie break del quinto set contro Djokovic, sempre sull'amata erba di Londra. Roger Federer è stato così: emotivo dentro ma fino a un certo punto, l'uomo che ha adorato il tennis («ti amo e non ti lascerò», ha scritto) e soprattutto la famiglia. Mirka, la moglie-manager, e le sue coppie di gemelli. Come quella volta, da vicino di tavola a colazione, con la schiena a pezzi per l'umidità di Roma e lo sguardo feroce per il dolore, che si sciolse in un attimo con un sorriso per farli giocare. È, in fondo, l'animo di un piccolo raccattapalle di Basilea diventato divino senza dimenticare di essere un uomo: «Quando facevo il ball boy guardavo i giocatori con meraviglia.
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