Murray, la scossa olimpica rompe l'incantesimo slam

A Wimbledon, l'8 luglio di quest'anno, Andy Murray perse per la quarta volta la finale di uno slam. E Federer, che l'aveva già battuto all'Us Open del 2008 e all'Australian Open del 2010, gli asciugò le lacrime con un auspicio che, di lì a due mesi, sarebbe diventato realtà: «Non abbatterti, presto conquisterai anche tu un major, lo meriti».
L'appuntamento con la vittoria è arrivato in un ventoso lunedì newyorkese, dove lo scozzese ha battuto Nole Djokovic in cinque set (7-6, 7-5, 2-6, 3-6, 6-2) in 4 ore e 54 minuti dando fondo alle ultime energie e mettendo a tacere il dolore dei crampi. Per la cronaca a un minuto soltanto dal record di durata fatto registrare nel 1988 da Lendl e Wilander. Con questa impresa Murray non solo ha centrato il primo slam d'una carriera comunque prestigiosa, per lui 20 vittorie in 32 finali, ma ha anche vendicato la sconfitta subita proprio da Nole nel gennaio del 2011 in Australia. La fine di una maledizione simile a una macumba. Al punto che nel circo bianco si parlava con insistenza di lui come del «perdente di successo», dello «sfigatino» che non riesce mai a godere fino all'ultimo.
Il copione è cambiato poco più di un mese fa a Londra, quando Murray, spinto dal tifo di tutti i britannici, s'è aggiudicato l'oro olimpico impartendo una durissima lezione a Federer. Quel giorno capì che poteva farcela a scalare la montagna sacra degli slam. Ma la svolta non è arrivata per caso. Dietro il rinascimento dello scozzese, seguito come un'ombra dalla madre, e questo legame ombelicale potrebbe averne ostacolato la maturazione, figura Ivan Lendl, uno dei più grandi nomi del tennis, campione di umiltà e di cocciutaggine, vincitore di 8 slam fra Parigi, Wimbledon e New York, nonché finalista per due volte a Wimbledon. L'ex campione, nato in Cecoslovacchia, ma naturalizzato negli Usa, è riuscito in pochi mesi a migliorarlo sul piano tecnico, tattico e mentale. Mai visto Murray battere così bene, sostenere scambi lunghissimi, aspettare l'errore dell'avversario. «Se poni la testa al servizio del gioco, diverrai invincibile», gli disse Lendl nel primo giorno di lavoro, a metà gennaio. E lui ha vinto ai Giochi di Londra come allo Us Open facendo leva su quei nervi che tante volte l'avevano tradito. In soldoni ha acquisito un'autostima sconosciuta fino all'anno scorso, anche se non ha perso la cattiva abitudine di cercarsi degli alibi toccandosi a turno coscia e schiena o prendendosela con il vento che era insidioso per entrambi.
A fine partita il 25enne Murray, d'una sola settimana più «vecchio» di Nole, ha posto in cima ai ringraziamenti il suo tecnico: «È uno dei più grandi tennisti di sempre, qui ha disputato 8 finali di fila. È bello averlo nel mio angolo». Sa bene, Andy, che senza la guida di Lendl non avrebbe stravinto il quinto set dopo essere stato raggiunto da Djokovic. Sa pure che deve ulteriormente migliorarsi per evitare di perdere una dote di 4 game come nel secondo set. Non sempre gli può andare bene.

È riuscito anche a cancellare un tabù storico portando il nome di un britannico nell'albo d'oro dopo quello di Fred Perry che risale al 1936. E così i primi quattro del ranking hanno vinto uno slam a testa: Djokovic in Australia, Nadal al Roland Garros, Federer a Wimbledon, lui a New York. Per il tennis il miglior spot possibile.

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