È appena sbarcato in Puglia, il suo buon ritiro estivo, scoperto grazie alla moglie. E da quella punta del Belpaese che si tuffa nello Jonio, Demetrio Albertini è pronto a raccontare del battesimo di Andrea Pirlo e di molto altro che ha a che fare col suo lavoro di dirigente e con la fuga dalla panchina. «Pensate: ho incrociato Andrea la mattina prima dell'esonero di Sarri. Abbiamo giocato a paddle e alla fine mi ha ripetuto il suo programma, il 15 agosto era pronto per l'incarico all'under 23 e non sembrava affatto preparato al cambio clamoroso di programma e di incarico» il primo contributo. Seguito dal secondo che è ancora più suggestivo: «Sono proprio io, come presidente del settore tecnico di Coverciano, che gli firmerò il patentino da allenatore. Durante la frequentazione del corso abbiamo spesso parlato: ha le idee chiare e può sfruttare un grande vantaggio».
Quale?
«È abituato, nella sua carriera da calciatore, ad assumersi rischi e a mostrare coraggio. Uno come Pirlo che ha affrontato sfide impegnative non può avere paura».
Basterà il coraggio?
«Vedrete: entrerà in punta di piedi nello spogliatoio della Juve, con umiltà, ma circondato dall'autorevolezza del suo passato. Poi toccherà ai calciatori fare il resto. Potrà contare inoltre su un altro aiuto fondamentale: quello della società. La Juve non ha fatto una scelta di comodo, è stato un bell'azzardo!».
Adesso però sveli un segreto: perché non ha mai pensato di fare l'allenatore Demetrio Albertini, centrocampista di talento, come Pirlo, Guardiola, Conte, Ancelotti, Gattuso?
«E invece all'inizio ho avuto la tentazione. Nel gennaio del 2005 ho anche frequentato il corso: avrei le carte in regola per andare in panchina. Ma non ho mai pensato di fare quel mestiere».
Come spiega il successo di tanti centrocampisti nel ruolo di allenatore?
«Perché sono abituati alle due fasi. A soccorrere con generosità i difensori quando si tratta di contrastare i rivali e di suggerire con fantasia assist per gli attaccanti quando c'è proporre gioco offensivo. È uno dei pochi ruoli nel calcio che ti consente una visione completa. Di qui il successo della categoria».
Ha una spiegazione razionale invece sulla sua scelta?
«Ne ho una come battuta: perché non avevo nessuna intenzione di avere a che fare con i calciatori!».
Quella seria invece?
«Perché credo che sia una missione fare l'allenatore: bisogna stare sul pezzo 25 ore al giorno. Ho chiuso la mia carriera da calciatore facendo in tre anni un bel numero di traslochi: prima l'Atletico di Madrid, poi la Lazio a Roma, quindi Bergamo e infine il Barcellona. Sentivo il bisogno di starmene un po' fermo, a casa. E mi è venuta l'idea di fare il dirigente».
Un predestinato anche in questo caso?
«No, solo un caso. Perché a marzo del 2006 ho fatto la mia partita d'addio a San Siro e a maggio dello stesso anno, esplosa calciopoli, sono diventato vice commissario con Guido Rossi, quindi vice-presidente della federcalcio. Quando sono uscito dall'esperienza non mi sono mica fermato: per non stare con le mani in mano sono diventato istruttore di paddle e giudice di linea nell'ippica. L'apprendistato e l'applicazione servono».
Di cosa c'è bisogno per fare la carriera da dirigente?
«Di coraggio. Se sei stato calciatore, conosci i fondamentali del lavoro. Da dirigente riparti da zero e devi avere pazienza infinita e conoscenza puntuale dei problemi. Da 15 anni ormai studio sul campo».
E nel calcio italiano quale considera la difficoltà maggiore?
«Riuscire a fare sistema. Specie in serie A dove confliggono spesso interessi diversi e visioni distanti. Si pensa che i numeri e i risultati siano tutto mentre invece il traguardo dovrebbe essere riuscire a dare valore al movimento.
Che significa puntare sullo stadio nuovo, incrementare il settore giovanile. Il Cagliari insegue il valore con la costruzione dello stadio, l'Atalanta allevando giovani talenti. E invece da noi quello che conta è la spartizione dei proventi dai diritti tv».
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