Stiamo vincendo, dobbiamo restare

Nei prossimi mesi la missione ancora più dura, più difficile e richiederà altri sacrifici. Ma non possiamo andarcene ora. Per rispetto ai nostri morti di ieri e per la credibilità dell’alleanza contro il terrorismo

Stiamo vincendo, dobbiamo restare

Diciamoci la verità. Nei pros­simi mesi sarà ancora più dura, ancora più difficile. E richiederà altro sangue. Ma dobbiamo re­stare. A tutti i costi e per molte ragioni. L’ultima, la più imme­diata è il rispetto per il sacrificio di Gianmarco, Sebastiano, Fran­cesco, Marco, i quattro alpini ca­duti ieri tra le mulattiere del Guli­stan. La loro presenza in quella serra dell’oppio, in quel santua­rio talebano è il simbolo di un dif­ficile successo. Il segnale di co­me dal 2006 a oggi sia cambiato il nostro impegno, di come i nostri soldati giochino un ruolo deter­minante nel contenere gli insor­ti e proteggere i civili. Fino a quat­tro anni fa in Afghanistan regna sovrana l’ipocrisia.E non soltan­to quella italiana. La Nato a quel tempo s’illude ancora di poter ri­durre al minimo la presenza sul territorio dei propri militari. La parola d’ordine è: «Mandiamoli a costruire un ponte qui e una scuola là, ma al tramonto ripor­tiamoli nelle basi». I risultati so­no disastrosi. Ad ogni tramonto scuole e ponti sono distrutti. Ogni notte i nostri alleati afghani sono minacciati o sgozzati. La missione afghana è una costosa tela di Penelope tessuta di gior­no e disfatta a ogni imbrunire. Nel 2008 finalmente la strate­gia cambia. I contingenti inco­minciano a vivere a fianco dei ci­vili, a combattere gomito a gomi­to con i soldati afghani, a garanti­re la difesa delle opere e delle in­frastrutture finanziate dagli aiuti internazionali. In quel 2008 gra­zie al cambio di passo imposto dall’attuale governo inizia an­che la svolta italiana. Il nostro contingente incomincia a cresce­re passando da poco più di 2.000 effettivi a circa 3.500. Ma cambia anche la qualità della presenza. Nel 2006 le nostre truppe si spin­gono poco oltre il quartier gene­rale di Herat. Il confronto diretto con i talebani in zone calde co­me la provincia di Farah è affida­to soltanto a ridottissime unità di forze speciali. Oggi le basi avanzate italiane garantiscono un presenza costante nelle zone calde del settore occidentale, di­fendono i villaggi civili e contra­stano la presenza talebana. Il Gu­lestan è una di queste basi avan­zate. In quel piccolo inferno met­tiamo piede già nel 2007 per poi lasciar il posto alle forze speciali dei marines. A settembre di que­st’anno la Nato ci riaffida il terri­torio. La nuova responsabilità è la conseguenza dell’ottimo lavo­r­o svolto in aree difficili come Ba­la Mourghab. Lì, grazie ai nostri alpini, oltre 7.000 civili fanno ri­torno ai villaggi, si riaprono i ba­zaar e le scuole chiuse da anni. Così ai primi di settembre gli alpi­ni del 7˚ reggimento Julia sono spediti nel Gulistan per conqui­stare -come a Bala Murghab - il cuore e la mente della popolazio­ne afghana. Chi anche stavolta sfodera la stantia e desueta ipo­crisia della politica nostrana sembra ignorare questi succes­si. Chi all’indomani della strage del Gulistan chiede di «riportare a casa» i nostri militari non solo non rispetta il loro sacrificio, ma è pronto a buttarlo alle ortiche as­sieme ai successi conseguiti gra­zie al loro sudore e al loro san­gue. L’ipocrisia del «riportiamo­li a casi» minaccia d’infliggere un duro colpo anche all’immagi­ne di tutta la nazione. Grazie alla nuova strategia Nato sviluppata oggi dal generale David Petra­eus, i successi dei nostri soldati vanno di pari passo con quelli ot­tenuti dagli americani e dal resto della missione Isaf. Negli ultimi mesi oltre 370 comandanti tale­bani di medio o alto livello sono stati catturati o uccisi. Stando al­le informazioni d’intelligence molte unità degli insorti sono al­lo sbando per la mancanza di ri­fornimenti dal Pakistan e per l’impossibilitàdi continuare a fi­n­anziarsi con il commercio d’op­pio. Il negoziato accettato da al­cune formazioni vicine al Mul­lah Omar è un altro segnale della crisi talebana. Fino a oggi i fede­lis­simi del mullah guercio rifiuta­vano qualsiasi dialogo. Oggi stre­mati dalle offensive della Nato anche i duri e puri del Mullah Omar incominciano a sognare un accordo. Abbandonare in questo momento cruciale un set­tore dell’Afghanistan dove la no­st­ra presenza è essenziale signifi­cherebbe compromettere l’inte­ra strategia Nato, regalando al­l’Italia la poco onorevole imma­gine d’inaffidabile voltagabba­na. E alla fine il danno più grave lo faremmo a noi stessi. Quando negli anni 90 voltammo il capo e ignorammo la tragedia di un po­polo ricondotto al medioevo dal fanatismo talebano la tragedia ci venne incontro e semino morte nel cuore Manhattan. Oggi far fallire la strategia della Nato si­gnificherebbe riconsegnare l’Af­ghanistan ai talebani e al terrori­smo.

Significherebbe esporre noi e i nostri alleati al rischio di un nuovo 11 settembre. Signifi­cherebbe minare per sempre la credibilità di un’alleanza occi­dentale che nel 2001 promise di liberare il mondo da Al Qaida e dagli orrori talebani.

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