Roma Dal terrazzo si gode la sua capitale: «Vedi tutta Roma». Più che vederla, la spia. Dago: Roberto D’Agostino, dal quarto piano sul Lungotevere, controlla i movimenti di vip, politici, finanzieri, giornalisti, potenti d’Italia. Poi «taglio, incollo, scrivo, riscrivo»: tutto sul suo sito, Dagospia, che è un po’ la bibbia del gossip di palazzo. «Una portineria elettronica» dice lui. Aspetta al terzo piano del suo appartamento, che poi sarebbe la redazione, sommerso fra decine di immaginette sacre, crocifissi, statuine napoletane, copertine che lo ritraggono, pupazzi fetish, parti (intime) del corpo in mostra o in scultura, flipper, la collezione di dischi, un telefono rosa con le piume, fotografie (anche quella gigante della Pampanini con la fetta di prosciutto, simbolo del cafonal), giornali, croci, teschi, scarpe appiccicate al soffitto. Da un lato il Tevere e il cupolone di San Pietro, dall’altro piazza Navona e l’Altare della patria. Ma non vuole parlare lì. «Facciamo colazione?». Allora la chiacchierata è a pranzo, sotto un ritrattone - mosaico di Moira Orfei. Nel regno di Dagospia c’è di tutto, è come cliccare sul sito: esce arte, kitsch, risata, eccesso, umorismo, soldi, passioni, sesso, parole, banche, libri, televisione, fotografie. Gli scoop su Telecom e Mediobanca, sulla Rai e sui salotti della Angiolillo, le foto Cafonal dei «morti da fama» e le picconate di Cossiga. C’è perfino una cappella con un’opera di Damien Hirst. «Rappresenta lo scontro tra chiesa e farmacia, fede e scienza, anima e corpo».
Non dica che va in chiesa...
«Invece sì, spesso. Non solo perché sono credente, ma sono profondamente stregato dall’iconografia religiosa. Scendi di casa, giri l’angolo, entri in una chiesa e trovi un Caravaggio, due Bernini e un Guido Reni che ti aspettano. Per me San Pietro e le sue cerimonie sono un grandissimo show che ha preconizzato Las Vegas, Broadway, Les Folies Bergére... ».
Così va in chiesa... non l’ha mai detto, però. Allora scusi la domanda: che faceva D’Agostino prima di Dagospia?
«Ho avuto tante vite, e ho sempre cambiato senza problemi… mi annoiavo in fretta. Io sono multiplex, come il cinema».
Cominciamo dall’inizio: che cosa faceva il suo papà?
«Era saldatore alla Breda. Così ho studiato ragioneria. È il mio unico titolo e ne sono orgoglioso. Poi a vent’anni sono entrato alla Cassa di risparmio di Roma. Era il ’68».
Era il ’68 e lei cominciava a fare il bancario? Non è proprio da rivoluzionario…
«Ma il ’68 è stata la fine dei favolosi anni Sessanta. Che erano soprattutto rock: i primi 45 giri dei Beatles e Rolling Stones escono nel ’63. Poi Doors, Hendrix, Frank Zappa».
Sono i suoi miti di gioventù?
«Sì, il rock e la cultura beat americana: Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti».
Scusi, ma da Kerouac com’è che poi è arrivato a fare «Bandiera Gialla» con Arbore e Boncompagni?
«“Fare” è una parola grossa. Andavo là, mi sedevo e tifavo. Poi cominciai a scrivere di musica sui giornali. La sera, dopo la banca. Nel ’75 sono arrivate la radio private e ho iniziato a fare il disk jockey. Ma la svolta è stata nel ’78, con le discoteche».
Lavorava in discoteca?
«Iniziava il cosiddetto riflusso… Eravamo arrivati a un punto in cui o ti compravi una pistola, o ci davi un taglio».
Quindi è finito nelle discoteche…
«Senza più cortei, il sabato si doveva pur fare qualcosa: e io facevo ballare i compagni. Col rock però. La disco music se l’erano presa i fasci… Comunque lavoravo in questa discoteca, il Titan, al venerdì, sabato e domenica».
Sempre dopo la banca…
«Sì. Però cominciai a scrivere di musica anche per Lotta continua e l’Europeo. Poi per i femminili. Così ho iniziato a guadagnare abbastanza e ho lasciato la banca».
Guadagnava come giornalista o come dj?
«Più come dj. Che poi era la mia vera passione. Io sono un fallito… Avrei voluto diventare un musicista rock. Ma non avevo talento per la chitarra e neanche la voce».
Ma intanto è finito in tv…
«Mi ha chiamato Renzo Arbore, che è il mio secondo padre, per Quelli della notte. Non avevo mai fatto tv: finire tutte le sere in diretta… ».
Uno choc?
«Sudavo come un cavallo. Non sapevo che fare».
Arbore avrà avuto qualcosa in mente quando l’ha chiamata…
«Ma no. Gli ho detto: farei la look-parade».
E Arbore accettò così, a scatola chiusa?
«Mi fece un provino a Villa Borghese: fermavo una persona e le facevo l’esame del look. Da come si vestiva raccontavo ciò che voleva essere, la sua identità immaginaria».
E alla fine? Dagospia com’è arrivato?
«Per caso. Prima c’è stato l’Espresso: scrivevo sempre di costume, società e mutande. E poi avevo una rubrica, Spia. Ma capitò un incidente di percorso… ».
Che cosa è successo?
«Scrissi che l’avvocato Agnelli portava sfiga. Non dovevo. Allora ho aggiunto il mio prefisso ed è nato Dagospia. È stata la mia amica Barbara Palombelli a suggerirmi di aprire un sito. Ci misi i soldi da solo, una trentina di milioni. Era il maggio del 2000».
E come ha fatto un sito, a quell’epoca, a diventare un fenomeno?
«Per caso e per caos. Sono partito con le mie solite cronache mondane, ma dopo una settimana scoprii che i naviganti erano più interessati a Tatò e Geronzi che a Madonna e Pippo Baudo».
Affari, finanza, politica, media… Li ha scoperti per caso?
«Ho scoperto che erano gli altri ad aver bisogno di Dagospia: ai personaggi di quel mondo il sito serviva per lanciare quelle notizie che non trovavano spazio sui giornali».
Lei vuol far credere che non ne sapeva nulla?
«Ma se non avevo mai nemmeno letto Il sole-24 ore… Che ne sapevo di Mibtel, Ebit… Che me ne fregava, poi».
E come se la cavò così alla grande?
«Intervenne Cossiga coi retroscena su Mediobanca».
Un colpo da niente…
«Nessuno scriveva mai di Cuccia. Io ne parlavo alla pari di un Maurizio Costanzo».
Riceve tante richieste, telefonate, segnalazioni...
«Dagospia è una grande piazza su internet: tutti si incontrano e si scambiano le informazioni. Io faccio solo il collettore. Come una portineria elettronica».
I soprannomi sono uno dei pezzi forti del sito. Daniela Santadechè, Pierfurby Casini, Lobby continua, Sergio Marpionne…
«L’ultimo è Sado-Masi… Bello no? Comunque ecco, io non faccio i dieci comandamenti del giorno. Anche perché quello che oggi è dramma, domani è farsa».
Molto romano... Andreotti ha spiegato che la capacità di sdrammatizzare gli veniva dal suo essere di Roma…
«Ma sì. Noi a Roma abbiamo il Vaticano… ».
E quindi?
«Se uno dice: hai visto Obama? Il romano ha la risposta: ’sti cazzi. Tradotto in italiano educato, non confondiamo mai la cronaca con la storia. Per i milanesi Obama è storia, per noi romani è cronaca».
Cioè?
«Roma ha una regola, che è il succo dell’andreottismo: perché escludere quando si può aggiungere?».
Cos’è, l’elogio dell’inciucio?
«Voi lo chiamate così… Ma il principio è: mai escludere, altrimenti ti crei un nemico in casa. E, prima o poi, il nemico cercherà di farti fuori».
Non è paraculismo?
«No, è realismo. Vuoi volare? E allora ti servono due ali, una sola non basta. Altrimenti è un fratricidio: come nel Pd di oggi… ».
Ma lei è democristiano… Non era di sinistra?
«E Franceschini da dove arriva?».
Ma Franceschini è ora…
«E Prodi? E la Bindi? Ed Enrico Letta?».
Insomma è democristiano?
«Macché, sono romano. Cioè: tra la destra e la sinistra, preferisco il centro storico. La Dc è stata solo un contenitore, Roma è uno stato mentale».
Ammetterà che questo stato mentale ha dei difetti…
«Ma gli scandali, le mazzette, il traffico sono solo cronaca. Anche Dagospia è così: quello che oggi metto in rete muore stasera e tutto rinasce domani mattina… ».
Eh però a volte qualcuno si arrabbia davvero…
«Ma io rispondo: la notizia è infondata? La tolgo. Non è mica scritta sulla pietra».
Allora si offendono? Quanti?
«Tanti. Ma faccio pace».
Con Sgarbi non ha fatto pace, però...
«Niente da fare. Lui se n’è fregato. Pensa solo a se stesso. Sgarbi ha un ego così grosso che se lo piglia per mano e ci va a spasso, sembra che siano in due, invece è da solo. Non gli importa, ma fa bene, così non spreca energie».
A lei invece è rimasto un po’ qua, pare…
«Un po’. Perché dopo ho pagato: per anni i giornali mi hanno considerato un’icona del trash in tv».
Cafonal, no? Ora vogliono anche trasformare la rubrica di Dagospia in un film. Che cos’è il cafonalesimo?
«Ne siamo tutti impregnati… Cafonal non deriva da cafone ma dalla parodia di “capital”. Tutti vogliono essere quello che non sono».
È tutto finto?
«Tutti recitano una propria fiction. Alla Pirandello: uno, nessuno e centomila. Quando usciamo di casa apparteniamo tutti alla società dello spettacolo, a un caravanserraglio fatto di feste col calicino e la volpetta al collo, quello che si abbuffa, quello che dorme, che si scaccola… ».
Va ancora alle feste?
«Grazie al cielo non m’invitano più…».
L’emblema del cafonal?
«Guardi che siamo tutti cafonal. E non è solo italiano. Prendiamo il bling blin di un parvenu come Sarkozy. O lo stile stracafonal di Michelle Obama».
E lei? È cafonal?
«Come no? Sono il primo».
Ma il codino? Non se lo taglierà mai?
«Forse lo taglierò. Ma io ho delle manie stagionali… ».
Per esempio?
«Ora ho quella dei tatuaggi. Ne ho appena fatto uno sull’avambraccio».
Ci ha scritto Dagospia, con la bombetta…
«Bello, no? Marchiato come un vitello. E ora ne sto facendo uno sulla schiena. Una croce enorme, effetto pelle lacerata. Le mostro un foto… ».
Orribile…
«A me piace. C’è il sangue».
Appunto… Dicono che anche Dagospia abbia i suoi intoccabili: Arbore, la Palombelli…
«Ma sono i miei migliori amici. Lei scriverebbe male dei suoi più cari amici?».
Certo che no. Ma i miei non sono famosi…
«Ma quando li ho conosciuti non erano famosi, Barbara l’ho incontrata nel ’72, Arbore nel ’65».
Insomma niente feste, snobba le telefonate. Ma a cena coi potenti ci va qualche volta o no? O sono solo leggende?
«Ma sì, qualche volta… parliamo… Mica han la febbre suina. Anche se alcuni sono dei maiali».
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