Ma sulle riforme bisogna imparare anche a litigare

Il buon senso forse ha trovato il varco per avviare una fattiva riforma della Costituzione. Motore di una situazione «quasi» positiva è il consenso per il dialogo rispetto alla cultura dell’odio, espresso anche da parte rilevante dell’opinione pubblica orientata a sinistra. Certo, vi sono nuclei conservatori che difendono ancora i loro privilegi, ma è ampia la convinzione che non si possa andare avanti così. I limiti di una Costituzione pensata dopo una guerra civile e per evitare la prossima sono presenti a tutti. L’ordinamento giudiziario, definito da scelte di opportunismo politico invece che da una liberale separazione tra giudici e pubblici ministeri, è visibilmente in affanno: non solo con un Csm che si considera terza camera legislativa e si arroga giudizi sulla costituzionalità delle norme, non solo con pm che «proclamano» contro la democrazia, non solo con tour organizzati nei penitenziari per costruire prove contro il presidente del Consiglio, ma con anche processi non direttamente politici che evidenziano il caos italiano: da Perugia a Garlasco.
Insomma i «fatti» spingono a intese tra maggioranza e opposizione per definire regole moderne nell’organizzazione dello Stato. Ma naturalmente i processi positivi non sono di per se stessi decisivi: da una parte il centrodestra non può accettare che il governo sia logorato da indagini contro Silvio Berlusconi che lo stesso prudentissimo Gianfranco Fini ha ricordato viziate da accanimento. In caso di show down antiberlusconiani di qualche tribunale, sarà difficile evitare una consultazione popolare mirata a ridare piena legittimità a Parlamento e governo. Dall’altra parte, Pier Luigi Bersani appena eletto segretario, non riuscirà a liberarsi dai rapporti con i giustizialisti dipietristi, indispensabili per mantenere tante amministrazioni regionali di centrosinistra. Insomma non mancheranno conflitti tra le reciproche propagande.
È indispensabile dunque, per darsi un respiro costituente, riflettere non solo su come trovare accordi, peraltro già raggiunti in campi rilevanti: dal Senato federale alla fine del bicameralismo perfetto, al numero dei parlamentari. Ma anche avere un metodo per affrontare le questioni su cui si dissente: dalla separazione delle carriere tra magistrati al neoproporzionalismo, ai poteri dell’esecutivo che, certo bilanciati da poteri al legislativo, devono essere chiari ed efficaci.
Alcune questioni vanno risolte con il confronto, mediando tra posizioni di principio anche diverse. In qualche caso però, come dimostrano le contraddizioni paralizzanti dell’attuale Costituzione, il compromesso per il compromesso provoca guasti. Per buone riforme costituzionali si tratta di pensare non solo come «ci si unisce» ma anche come «ci si divide». Quella sempre vitale impalcatura della vita politica e civile americana che è la Costituzione definita alla fine del Settecento, nasce non solo dall’intesa tra i protagonisti della guerra anticoloniale, ma anche da un anno di scontri politici, con voti di tutte le assemblee dei vari stati dell’Unione, per definire il carattere dello Stato centrale, se «federale» ma forte (con seri poteri su difesa, moneta, politica estera e dunque su parte delle tasse) o solo confederale (mera sovrastruttura di più corposi Stati sostanzialmente sovrani).


Anche la nostra Costituzione, su cui pure incombeva la fine della guerra calda e l’inizio della guerra fredda, una questione decisiva, che non poteva essere risolta con compromessi verbali (la forma dello Stato, monarchica o repubblicana), la delegò al popolo sovrano. Sapere trovare i mezzi per coinvolgere il popolo nello sciogliere i nodi della prossima fase della vita della Repubblica è una necessità da affrontare senza furbate, con sincero spirito innanzi tutto democratico.

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