Tagliamo i rami secchi ma non le nostre radici

Devo associarmi a Carlo Lottieri che, come ex critico musicale e pensatore antistatalista, auspica una chiusura severa dei cordoni della borsa, oppure devo cedere a certi miei sentimenti, o, se preferite, sentimentalismi? Il dilemma è tormentoso. Sono, in economia, un liberista, e tante volte ho fustigato gli sprechi pubblici. Eppure, in presenza di queste impietose cifre sui costi e sui ricavi degli enti lirici - e sui tagli da apportare ai loro bilanci - divengo esitante. Bisogna risparmiare, chi lo nega. Ma penso, magari sbagliando, che bisognerebbe più urgentemente farlo altrove. Per esempio nelle indennità dei parlamentari e dei consiglieri regionali, per esempio nelle retribuzioni degli addetti ad «autorità» di nulla indipendenza e di dubbia utilità. Lì non rifletterei nemmeno un attimo nel calare la mannaia. Ma la lirica, la musica, sono altra cosa. Io credo che, ancor più degli eletti dal popolo, esse rappresentino il popolo.
Il mio rapporto d’estimatore di Quintino Sella con questi enti mangiasoldi può essere paragonato a quello che ho con la religione. Da laico convinto sono contrario a ogni interferenza della Chiesa. Ma sento fortemente l’importanza che i riti cattolici e il latinorum ecclesiastico hanno avuto nella mia formazione. In maniera analoga i miei rigorismi di bilancio si attenuano se la posta sul tavolo è rappresentata dalla musica, dalla lirica, da quel patrimonio di melodie e di trame che ha un ruolo fondamentale nella cultura e nella tradizione nazionale. Ho amato e ho frequentato con una qualche assiduità l’opera. Da un po’ la Scala non m’invita più alla prima di Sant’Ambrogio, per motivo di vecchiezza o di scarsa autorevolezza o d’entrambe le cose. Ma non è in quella circostanza e con quel pubblico mondano - mi sono trovato a fianco di celebri calciatori dalla dubbia competenza musicale - che avvertivo il fascino dell’opera. Lo avvertivo nelle recite normali, nella passione dei loggionisti, e anche nel fischiettare di anziani operai per la strada (un tempo c’era l’incanto degli organini che strimpellavano le arie popolari, dando a esse una suggestione toccante di semplicità e di povertà).
Odio la retorica, e dunque non indulgerò più che tanto all’amarcord, ai rimpianti. Ma, appartenendo alla vil razza dannata dei risorgimentalisti, mi azzardo perfino a rievocare la stagione patriottica in cui ci fu contiguità tra l’opera e la Patria. Poveri risorgimentalisti, siamo rimasti in pochi. Si adatta a noi la grande battuta di Flaiano, «adesso che tutti sono passati all’avanguardia sono rimasto solo io a fare il grosso dell’esercito». Ci si appassionò per Verdi che «pianse ed amò per tutti», ci si schierò nel duello tra lui e Wagner, si delirò per le dive e per i divi del belcanto. Questo nostro straordinario e insopportabile Paese è intriso di romanze, di acuti, di um-pa-pa. Abbiamo una ricchezza musicale sovrastata soltanto dalla ricchezza di opere d’arte, e quanto spendiamo per questi nostri patrimoni non sarà mai adeguato alla loro grandezza e al prestigio che ne deriva.
La polemica sulla camorra, su Saviano, sul danno che l’occuparsi di criminalità organizzata arreca al nome dell’Italia rende a mio avviso più rilevante il dedicare attenzione, denaro, sforzi a ciò che quel nome nobilita.

Lo sospetto, anzi lo so: nelle pieghe delle sovvenzioni agli enti lirici si annidano e si annideranno i soliti furbetti e furbastri appostati dovunque avvenga un passaggio di denaro. A questo non so come sia possibile porre rimedio. Ma l’affamare gli enti lirici secondo me non è un rimedio, è un’operazione degna di Origene.

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