Che il mondo del pop si nutra di passioni effimere non è una novità. John Lennon disse che i Beatles erano molto interessati alle mode. Verrebbe da pensare che i Beatles le mode le creassero più che cavalcarle. Nel loro caso non c'erano solo quattro bei giovani dall'abbigliamento all'ultimo grido. Spaccavano lo schermo, d'accordo, e la loro immagine sbarazzina strappava sorrisi, ma la loro creatività e la loro gioia di vivere erano balsamo per l'anima e benzina per il piedino.
La scena pop non è diversa da molti altri generi di cui il business ha fiutato la grande appetibilità commerciale. È pressoché impossibile farsi venire in mente una star di entrambi i sessi che non sia stata scelta per un'immagine vincente. Se a dominare il music biz sono sempre stati i maschi, non sono però mai mancate grandi cantanti donne, solitamente bellissime. Che dire di Aretha Franklin, non certo il prototipo della top model? Un'eccezione da manuale.
Nello scenario della musica internazionale di oggi, la mercificazione della cantante pop-rock ha raggiunto livelli quasi imbarazzanti, soprattutto considerato il drastico restringimento del mercato digitale. È chiaro che l'ago della bilancia lo hanno fatto i social, riequilibrando verso il basso una tendenza deprimente: nel mondo della musica circola una frazione infinitesimale dei soldi che l'hanno caratterizzata per decenni, ma alcune abitudini restano inveterate, coinvolgendo ambiti in precedenza tutto sommato risparmiati da certe distorsioni.
A onor del vero, non è che figure come quelle di Nina Simone, Joni Mitchell e Rickie Lee Jones, venerate dal grande pubblico e dalla critica, oltre che da schiere di colleghi maschi, fossero inguardabili. Avevano un'immagine forte, ma raramente ammiccavano a telecamere e fan: in fondo, erano artiste serie e, presumibilmente, facevano leva sul proprio talento, più che sulla propria avvenenza. Forse, addirittura, un'immagine diversa si sarebbe mal sposata con la loro vocazione di cantanti ispirate alla musica delle radici e, soprattutto, al blues. Leggende della musica nera come Memphis Minnie e Koko Taylor non erano il prototipo dell'educanda, ma cantavano i loro brani scollacciati accompagnandoli con interiezioni irripetibili e pose da bordello.
Ed è appunto l'appropriazione della «musica del diavolo» e del folk da parte del business a spiccare maggiormente sulla scena odierna. Qualche esempio? Quando calcano il palco, Samantha Fish e Ana Popovic, spesso in tournée in Europa, non rinunciano mai a minigonne che farebbero arrossire Mary Quant. Sono due ottime chitarriste, ma quel loro marchio di fabbrica rischia di trasformarle in caricature di sé stesse. Taylor Swift, superstar del country-pop, spazia da un'immagine di ragazza acqua e sapone a quella di ammiccante panterina, senza mai avvicinarsi alle pose sfacciate della collega Miley Cyrus.
La scelta della chitarra, lo strumento sexy per eccellenza se imbracciato da un uomo, può rappresentare un elemento di rottura. Una delle prime cantautrici a farlo con successo e a non impallidire minimamente di fronte ai colleghi è Bonnie Raitt, fresca vincitrice di un Grammie per Just like that, canzone dell'anno. Bonnie, grandissimo talento vocale e ottima tecnica chitarristica, non ha mai dovuto mostrare le cosce per imporsi. Le Hole di Courtney Love un po' di teatralità in più hanno dovuto mettercela, invece.
Oggi, come lasciano intendere i Måneskin, esporre le gambe pare non bastare più.
Anche grazie alla loro popolarità, l'idea di una donna platealmente irriverente in una band di uomini sta prendendo piede, rischiando di diventare l'ennesimo cliché. Se l'occhio vuole la sua parte, l'orecchio e l'anima non sono da meno. In fondo, dovrebbe essere sempre la musica a fare la differenza.
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