Dallo strapotere di Facebook a quello di Google, passando per Twitter, la prima piattaforma che ha bloccato l’account di quello che allora era il presidente degli Stati Uniti, quello delle Big Tech è un tema esploso con tutta la sua forza nelle ultime settimane. Ma cosa ne pensa chi della tecnologia ha fatto il suo lavoro. Ne abbiamo parlato con Mariuccia Teroni, founder e presidente di FacilitLive, piattaforma per la gestione, la ricerca e il trattamento delle informazioni che ha ottenuto brevetti in 46 Paesi.
Una vita “passata ad innovare”, quella della Teroni che a 24 anni, dopo la laurea in economia, si butta in un settore ancora agli albori facendo “da traduttore” tra il mondo analogico e quello digitale.
Che idea si è fatta della questione?
Ho avuto la grande fortuna di formarmi con persone che conoscevano i segreti della gestione delle informazioni in un mondo che stava sparendo. E proprio la mia esperienza mi fa pensare che è stato tradito lo spirito che ha animato la rivoluzione digitale partita negli anni ‘80. Aveva un obiettivo importante, non ce lo dobbiamo mai dimenticare: quello di migliorare il mondo. Molti dei protagonisti di quegli anni avevano respirato la cultura hippie e il ‘68, erano ribelli nei confronti del sistema e hanno convogliato queste forze verso questa grandissima innovazione. Basti pensare che il computer allora era riservato a pochi, era una sorta di potere distribuito a tutti, è diventato accessibile. Ma a distanza di circa 30 anni arriva una nuova generazione di imprenditori digitali. Sono quelli che non hanno vissuto quegli ideali. Rappresentano valori molto diversi.
Ma in questo “mondo migliore” prima o poi l’idea del profitto sarebbe arrivata. Crede che potesse andare diversamente?
Sì, ma come imprenditore ritengo che ci debba essere anche un’etica
Già qualche anno fa ci si era indignati per il caso Cambridge Analytica. Dopo il clamore iniziale però, tutto sembra essere stato dimenticato. Secondo lei come mai? Succederà ancora?
Cambridge Analytica ha fatto emergere uno dei problemi più importanti della rete: l’uso che si fa dei dati degli utenti. Sono come briciole che lasciamo in modo inconsapevole, ma arriva un momento in cui ci accorgiamo che le nostre vite personali, la democrazia, la politica vengono toccate e viene portata in evidenza quello che prima era noto agli addetti ai lavori. Quello di cui c’è bisogno oggi è creare la consapevolezza. Quello digitale è un mondo che dà tantissimi vantaggi, tantissimi privilegi, però nasconde anche delle insidie. E soprattutto quello che deve passare è che la tecnologia non ha colpe. È l’uso che se ne fa che ne determina la bontà o meno. Il problema è anche come noi la riportiamo la tecnologia. Perché è con le parole che raccontiamo quanto è bello stare su internet, quanto è bello lasciare le nostre briciole in giro… Le parole hanno un significato, noi costruiamo una realtà con le parole. Quindi dobbiamo stare attenti ad abituare la gente ad esser consapevole che serve una cultura digitale. Perché anche su internet ci sono delle regole, bisogna sapersi muovere.
E come si può creare questa cultura digitale?
Parlandone. E insegnandola nelle scuole, sensibilizzando i giovani all’uso corretto degli strumenti che maneggiano. Perché la cultura digitale non è il saper usare gli strumenti, quella è tecnica. Cultura digitale vuol dire una corretta educazione al mondo digitale, conoscerne i vantaggi e le insidie che lì si nascondono. Dovrebbe essere materia scolastica, argomento trattato in tv, dovrebbe essere una missione. Ai giganti del web questo “ignorante digitale” ha in qualche modo fatto gioco: hanno raccontato il mondo con le loro parole. Dobbiamo avere gli strumenti per generare un senso critico rispetto a quello che dicono.
Come innescare il processo di cui parla?
Bisogna iniziare a parlarne. Io lo faccio tutte le volte che posso vado nelle scuole e le università. E ai giovani chiedo sempre di imparare a usare un senso critico. Credo che i giovani siano pronti ad ascoltare, i tempi sono maturi.
A guardar i comportamenti delle cosiddette Big Tech, sembra che per il profitto tutto sia concesso. Secondo lei che è un’imprenditrice però esiste un’etica invalicabile, giusto?
Quando ero molto giovane, a 19 anni, alle prime lezioni della facoltà di Economia mi parlarono del ruolo sociale dell’imprenditore. E a me quest’immagine colpì molto. Perché per me essere imprenditore vuol dire creare ricchezza, non creare profitto. Se crei ricchezza, il profitto ce l’hai. Vuol dire restituire opportunità a un territorio che per me ha dato tanto. Pensi che nel 2013 io e Gianpiero (Lotito, l’altro fondatore di FacilityLive, ndr) pensammo di abbandonare l’Italia e trasferirci in Silicon Valley. Poi abbiamo iniziato a vedere con gli occhi dei visionari alcune cose. Avevamo intuito che l’Europa avrebbe potuto giocare un ruolo importante e ci siamo detti che provare a giocarci qui questa partita poteva esser interessante per degli innovatori. Inoltre c’è un senso di restituzione. Perché negli anni ‘80, quando mi sono formata, c’erano tante opportunità per i giovani. Oggi non è più così, ma sognare di poter dare la stessa opportunità per noi è stata una molla importante. L’etica è una questione di dna, anche qui di cultura, Come persona, come donna, come imprenditrice voglio essere rispettata, quindi devo prima rispettare gli altri.
In questo discorso che ruolo hanno le istituzioni? Quanto possono (o devono) intervenire in quello che è un campo privato?
Penso che non possiamo trasformare in pubblico dominio quello che nasce come impresa privata. Però possiamo e dobbiamo cercare di normarlo per evitare abusi o situazioni come quelle di cui stiamo parlando. Internet è molto giovane, lo stiamo conoscendo adesso per quello che è, solo adesso ci stiamo accorgendo delle falle da sistemare. Penso però che ci siamo avviati per questa strada e che l’Europa può fare anche da scuola con ad esempio il Gdpr, è una questione anche di cultura.
Al giorno d'oggi disconnettersi da tutto è difficile. Cosa consiglia a chi non vuol fare "l'eremita digitale", ma nemmeno sottostare indiscriminatamente alle regole delle Big Tech?
Porto in seno una grande dicotomia perché costruisco tecnologia, ma non amo usarla. E come dicevo prima bisogna imparare a usare la tecnologia.
E torniamo sempre al discorso della cultura, del conoscere i benefici, conoscere i pericoli, come anche la dipendenza psicologica. Noi ci dobbiamo abituare a pensare che è l’uomo che deve guidare la tecnologia e non la tecnologia a guidare l’uomo.
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