Americano e serbo. Bel miscuglio. Come dire cuore e anima, testa e idee. Metti tutto insieme e ne esce Milorad Cavic, quello che perse contro Phelps alle Olimpiadi nei 100 farfalla e ancora non sai se quella del bambolone Usa fu vera gloria. Poi Cavic ha riperso a Roma, ai mondiali. Ma il tipo è tosto, difficile si arrenda. Nato ad Anaheim 25 anni fa, laureato a Berkeley in economia, ora a Belgrado si sta occupando di ragazzi orfani di guerra: sarà il loro punto di riferimento nella vita e in piscina. Papà emigrato nel 1983 al seguito dellamerican dream, il sogno di una vita migliore. Sì, il ragazzo ne ha viste tante, anche se ha cominciato a tuffarsi in piscina da quando aveva 13 anni.
Ascolti Cavic e dici: però, in gamba! Il muto uomo-pesce, che fa volteggiare la sua farfalla nellacqua, non è solo un dentro e fuori dalla piscina. Un anno fa è arrivato in Italia, tutto partì da Ispra, questanno si trasferirà a Torraca di Caserta con Andrea di Nino, tecnico legato al gruppo Adn, ha nellArena lo sponsor che lo coccola e lo fa sentire il Phelps del vecchio Continente.
Cavic, come se la passa un serbo dAmerica in Italia?
«È un Paese sorprendente: ha cultura, cibo fantastico. Peccato ci sia una monocultura: difficile trovare persone che parlino una seconda lingua».
Beh, i giovani ci provano...
«Vero, me ne sono accorto. Serve per intendersi su quella che definisco cultura pop. A parte questo, amo Milano. Vorrei venire a fare un master alla Bocconi. Sono laureato in economia, sarebbe un sogno. Eppoi...».
Eppoi...
«Amo il calcio e tifo Inter. Quando gioco con la playstation, lInter è la mia squadra».
Tipo proprio internazionale. Domanda ovvia: si sente più americano o serbo?
«Dentro sono serbo, ma per abitudini e pensiero americano: penso positivo, sono liberale. La Serbia è ancora in via di sviluppo. Il sistema politico ha bisogno di una riforma, non è pienamente democratico. E nei ministeri vorrei gente che sintenda dei problemi».
Lei salì sul podio europeo con la maglia «Kosovo è Serbia». Seguirono polemiche e squalifica. Pentito?
«Pentito: mai. Anche se non è stata una cosa furba. Ho fatto tutto con il cuore, una reazione emotiva. E se ho dovuto pagare per qualcosa suggerita dal cuore, accetto».
La sconfitta da Phelps a Pechino, cosa le ha suggerito? Tocca lei, tocca lui, ma vince lui. Conto in sospeso?
«Non ho perso il sonno. Se mi avesse dato davvero fastidio, mi sarei rivolto al tribunale. La storia dice che ho toccato prima, ma non si è attivato il sistema. Posso combattere in vasca, non la tecnologia. Certo, mi ha turbato pensare che Omega possa sponsorizzare tutto: i Giochi e anche Phelps».
Vincere una olimpiade, può cambiare la vita?
«Come minimo ti modifica il livello degli sponsor. È incredibile come un centesimo di secondo può cambiarti lesistenza. Ma è la vita. Sarei stato più ricco. Nuoto perché mi spinge il cuore, ho sacrificato gli anni migliori, però non ho sentimenti negativi verso Phelps».
La tecnologia farà un passo indietro: tornerete a costumi più credibili...
«Servirà a restituire un po di legittimità e credibilità».
I costumi-jet possono aver nascosto anche il doping?
«Certo, è strano vedere i tempi e chiedersi: ma quale costume aveva? Finché i miglioramenti sono in centesimi posso capire. Ma quando si parla di secondi, comincio a pensare che non sia più soltanto merito del costume. Credo che tanti abbiano usato i costumi per coprire altro».
Cosa pensa del francese Bernard? Con quel fisicone...
«Se vinci, fai il test antidoping. Finché non ti trovano positivo, niente da dire. Ma ciascuno di noi può avere dubbi».
E allora che fare?
«Vorrei il passaporto del sangue per gli atleti. Ogni tre mesi un esame e lesito disponibile alla visione di tutti. Chiarezza per avere il nome pulito. Io ho cominciato: metto i risultati degli esami sul mio sito web. E chiunque può consultarlo».
Bene, ma se fosse un presidente dello sport, si fermerebbe al passaporto?
«Penso al nuoto. Non abbiamo abbastanza sponsor. Dobbiamo limitarci a quello sulla cuffia. Dovremmo imitare la Formula uno. Loro ne mettono diversi sui caschi, noi sulla cuffia.
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