A un politico che elogiava l’utilità dei test nei procedimenti di selezione chiesi: «Se lei dovesse scegliere un collaboratore di assoluta fiducia cosa preferirebbe? Selezionarlo mediante test, oppure mediante un colloquio, guardandolo negli occhi, studiando le sue reazioni mentre risponde alle domande?». Dopo una breve esitazione, la risposta fu: «Indubbiamente nel secondo modo». Ho posto domande analoghe in varie occasioni e la risposta è stata sempre la stessa, a meno che l’interlocutore non fosse uno specialista o un venditore di test.
E allora perché questo sistema si è diffuso così tanto? Forse perché il numero dei candidati in ogni ambito è elevato? Così sarebbe se il livello medio dei candidati fosse molto alto. Ma noi siamo a livelli in cui uno studente universitario dell’ultimo anno di matematica scrive «l’aspirale» invece che «la spirale» e, se glielo fai notare, risponde: «Embè, che problema c’è?». Basterebbe introdurre dei test di base elementarissimi, che verifichino le capacità minime sul piano grammaticale, linguistico, aritmetico e la consapevolezza del luogo e del tempo in cui si vive, per scremare almeno il 90% dei candidati. Dopodiché si potrebbe procedere con la valutazione del curriculum scolastico, con prove scritte e un colloquio. Se invece si pretende di giudicare l’idoneità a frequentare la facoltà di medicina chiedendo qual è il valore più probabile della corrente circolante in una batteria da 12 volt collegata a due resistenze in parallelo di 60 e 120 ohm e ad una di 40 ohm, escludendo dalla valutazione la carriera scolastica, sarebbe più serio procedere con un sorteggio.
Il motivo che spinge a selezionare mediante test non è pratico bensì teorico, diciamo pure ideologico: si tratta dell’idea secondo cui i test consentirebbero una valutazione «oggettiva», indipendente dalla soggettività dell’esaminatore, e una misurazione esatta della qualità del candidato. Una serie di domande a risposta chiusa cui rispondere con una crocetta sulla casella giusta, un numero che risulta dalla somma delle risposte corrette che definisce in modo «esatto» e «oggettivo» la qualità del candidato, e il gioco è fatto. Si tratta di una grande illusione. Poiché il nostro paese è, come al solito, l’ultimo a recepire le «novità», sarebbe bene sfruttare il vantaggio di ascoltare le critiche di chi, all’estero, ha già sperimentato il sistema delle cosiddette «valutazioni oggettive» e ne sta verificando i limiti.
Naturalmente, i più restii ad ammettere tali limiti sono i teorici e i praticanti delle «valutazioni oggettive», alcuni dei quali vivono di questa attività. Difatti, è bene ricordare (o informare chi non lo sa) che la preparazione dei test non compete ai docenti, e neppure sempre a funzionari ministeriali. Essa è sempre più di frequente affidata a «ditte» esterne che si presentano - non si capisce bene con quali credenziali e senza essere sottoposte a verifica permanente - come «specialiste» della valutazione mediante test. Insomma, sempre più i test sono preparati da «specialisti» o «manager» della valutazione, il cui atteggiamento è unilaterale e incontrollato.
Come ha osservato un rapporto redatto dalla International Mathematical Union assieme ad altre prestigiose associazioni scientifiche internazionali, gli specialisti di valutazione, «essendo incapaci di misurare la qualità, sostituiscono la qualità con dei numeri che possono misurare», e ciò - prosegue il rapporto - non ha alcun serio fondamento. La valutazione classica consiste nel fare un esame e tradurre il giudizio dell’esaminatore in un voto, il quale è soltanto una rappresentazione di quel giudizio su una scala numerica. I valutatori «oggettivi» sostituiscono all’esame un test, che avrebbe il pregio di escludere gli umori «soggettivi» dell’esaminatore e di produrre un risultato numerico indipendente da questi umori e, come tale, indiscutibile. Ma non è difficile intendere che così il problema è soltanto spostato, anzi è stato nascosto sotto il tappeto: la soggettività è ancora ben presente, nella preparazione e nella scelta dei test. È la soggettività di chi ha compiuto tale operazione - funzionari, specialisti o ditte - e che, per giunta, resta anonimo e non risponde neanche per un centesimo di quanto è chiamata a rispondere una commissione di esame.
Tutto deriva dall’idea insensata e antiscientifica che si possano «misurare» le qualità. Per misurare occorre disporre di un’unità di misura universalmente accettata e quindi oggettiva. Per misurare la larghezza di questo giornale basta un metro non truccato: il risultato sarà lo stesso, indipendentemente da chi faccia questa operazione senza imbrogli e con scrupolo. «Qual è l’unità di misura della qualità di un candidato?», chiesi una volta a un patito della valutazione oggettiva. Dopo una certa esitazione la risposta fu: «Il test». Una risposta insensata e antiscientifica, perché è come se pretendessi di misurare le lunghezze con un metro da me fabbricato con criteri personali, mentre altri operano con altri metri fabbricati con criteri diversi.
Il fine più devastante di queste teorie «oggettiviste» è di sottrarre ai protagonisti dell’istruzione - essenzialmente gli insegnanti - la funzione di giudicare, trasferendola ai «manager» della valutazione, che magari non sanno un acca della materia in oggetto ma avrebbero la «competenza» di fabbricare test, con l’ausilio di «esperti» scelti non si sa come. Ecco perché stiamo assistendo a un incredibile fenomeno: e cioè che sono i professori, i presidi di facoltà, i rettori, i chirurghi di fama a protestare, a dire che loro non saprebbero mai superare quei test e che si sta rischiando di scartare i migliori studenti. Protestano perché non c’entrano nulla: questa operazione passa sulle loro teste.
È un andazzo che conduce allo svilimento e alla distruzione del sistema dell’istruzione.
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