La testimonianza/ Quando là sotto "quella cosa" fa rinascere paure antiche

Per prima, arriva «Quella Cosa» da là sotto. Raggelante. «Quella Cosa» che non si vede, che soprattutto non si sa cosa sia, ma che purtroppo si sente. «Quella Cosa» che più tardi la gente con le coperte sulle spalle e gli sguardi smarriti sotto i capelli imbiancati dalla calcina, definirà davanti ai microfoni delle tv e ai taccuini dei cronisti con la prima parola che verrà in mente: «boato».

Eppure è altro. Assolutamente altro. Paurosamente altro. Dapprima un mugolio sordo e cupo, un inquietante rantolo dai toni bassi, il borgoritmo uscito dal ventre di un ciclope che via via sale dalle profondità della terra e si amplifica fino a esplodere in un urlo rabbioso. Perché là sotto, a chilometri e chilometri di profondità - ce lo avrebbero spiegato fino alla noia, nei giorni a venire - era in corso lo scontro delle grandi zolle tettoniche, smisurate masse rocciose inarcate a spingere l’una contro l’altra, in tensione, fino a quando...

Fino a quando quell’equilibrio si rompe e in quel titanico braccio di ferro una delle zolle ha la meglio e va a sovrastare l’altra con un gran rimbalzo, come un gran colpo di frusta. Ed è proprio allora che all’improvviso, dopo quel gemito agghiacciante, perdi ogni certezza. Perché il pavimento di casa o l’asfalto che ti sta sotto ai piedi - fino a quel momento incrollabili caposaldi di tutta la tua precedente vita di piccolo uomo - diventano gomma, si fanno materia quasi liquida, ondeggiano, costringendoti a flettere le ginocchia alla ricerca di un equilibrio impossibile, cercando appoggio a un armadio che credevi massiccio e invece corre via o a una parete che inopinatamente si muove.

Sono passati quasi 33 anni - era il 6 maggio 1976 e l’orologio di casa, a Udine, segnava le 20.59 - eppure se chiudo gli occhi «Quella Cosa» la posso risentire ancora, come fosse ieri. E così rivivo quelle ginocchia molli, quelle sensazioni di vuoto e di pieno che si alternano a ritmo forsennato sotto ai piedi, provocandoti una nausea da marinaio di primo pelo finito suo malgrado, con indicibile terrore, nel bel mezzo di una tempesta perfetta in mezzo ai banchi di Terranova.

Ricordo anche lo scricchiolio scaturito per 55 interminabili secondi dalle spesse pareti di quel palazzone borghese disposto ad angolo, su due vie alberate, e sottoposto in quella straordinariamente calda, caldissima notte a una titanica torsione. Era stato un «moto ondulatorio sussultorio», avremmo imparato per sempre noi, a partire da quel giorno. Parole terribili che da allora in avanti avremmo messo accanto ad altre, anch’esse nuove, come «Richter» e «Mercalli», magari già ascoltate tempo prima, riferite a luoghi lontani e per questo sempre vissute come estranee, come cose che non ci toccavano. E che da quel 6 maggio di 33 anni fa avremmo invece imparato a conoscere e soprattutto a temere e rispettare.

Ma a ben guardare, oltre che alla scoperta di parole ed espressioni inedite come quelle appena ricordate, un terremoto può essere anche (per chi scrive lo è stato) la ri-scoperta di paure antiche, ancestrali. Tuttavia preziose, perché svelandoti il tuo passato ti fanno capire da dove arrivi e chi in fondo per davvero sei. Paure dimenticate, cancellate dalla tivù insieme alle leggende raccontate dai nonni ai nipoti di fronte a un fuoco acceso. Nonni, non grandi fratelli. Leggende come quella dell’Orcolat, il mostro orrifico e favolistico della tradizione popolare friulana che ogni tanto si risveglia scuotendosi di dosso le montagne e distruggendo le case e i villaggi che vi stanno aggrappati. «Se non dormi - era la minaccia - arriva lui».

E quel 6 maggio ’76, anche se non più in età di avere un nonno, il mio Orcolat era arrivato. Per questo ricordo tutto, il brutto come il bello. Ovvero quei maledetti archi delle porte così difficili da raggiungere perché in forsennato spostamento da destra a sinistra, o avanti e indietro. Ma anche - e questo è il bello - l’abbraccio stretto, dato ai miei pensando che forse sarebbe stato l’ultimo, là sotto l’estrema speranza rappresentata da un solido architrave. Poi la corsa precipitosa giù per le scale, cosa che in queste occasioni non si dovrebbe mai fare, ma che tutti fanno.

E da ultimo, nel silenzio di quella notte, la voce di mia mamma, finalmente giù in strada, seduta in macchina, con tutti i suoi al sicuro, finalmente sotto controllo, chiedersi immagonita: «Ma dove sarà finito il gatto?».

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