Un tetto all’accoglienza dei nomadi

È il momento di depurare la vicenda dei rom dagli eccessi di emotività, pregiudizi e ideologia che la caratterizzano. È il momento di provare a gestirla con l'uso della ragione e di analisi oggettive. Insomma razionalmente. Cominciamo col ricordare che l'argomento per illustrare i vantaggi dell'immigrazione è il seguente: gli immigrati sono una risorsa per il paese giacché sono disposti ad accettare lavori che gli italiani non voglio più fare. Bene, se questa è una buona ragione per accettare l'immigrazione di massa, per quali lavori rifiutati dagli italiani sono disponibili i nomadi? L'esperienza ci dice che se una parte dei rom accetta di integrarsi e di contribuire alla vita civile ed economica della società, la rimanente parte non ne ha la minima intenzione. Forse conviene, dunque, cominciare a distinguere fra immigrazione «buona», costituita da soggetti disposti all'integrazione e al lavoro, e una «meno buona». E sulla base di questa distinzione selezionare. Anzi, diciamola la parolaccia politicamente scorrettissima: discriminare. In fondo l'articolo 1 della Costituzione dice che «l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro». Non mi è mai stato chiaro cosa significhi «fondata sul lavoro», mi è sempre sembrata una pura declamazione retorica. Però forse ora con riferimento all'accoglienza e ai diritti di cittadinanza acquista un senso.

Altra considerazione, puramente statistica: quanti ne può realisticamente accogliere la città: 2000, 3000, 5000? Queste sono valutazioni che spettano alla politica, che gli amministratori devono avere il coraggio di fare, certo servendosi del contributo di tecnici e dibattendone pubblicamente, ma delle quali si devono infine assumere la piena responsabilità. Altrimenti perdono il diritto di censurare certe reazioni emotive o strumentali - comunque inaccettabili - delle frange più deboli ed esposte della popolazione.

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