TONY O FAUSTO IL BIVIO DELL’ULIVO

Tony Blair o Fausto Bertinotti? Tony Blair o Romano Prodi? Questa è la domanda che si pone, se si vuole tradurre in italiano il modello enunciato dal premier britannico nel suo discorso di Bruxelles. È, infatti, un discorso che non può essere letto solo nella chiave, troppo riduttiva, degli equilibri politici all'interno dell'Unione. La centralità dell'idea delle riforme e dell'innovazione per affrontare la crisi profonda del Welfare e dello «spazio sociale» europeo - crisi che penalizza ripresa e sviluppo - oggi rappresenta per tutti il problema dei problemi, richiede impegni precisi e scelte che mal si conciliano con le culture che prevalgono nell'area progressista.
Impossibile non fare subito un confronto proprio con Romano Prodi, che ha guidato la Commissione per una lunga stagione senza accorgersi della tempesta che stava arrivando, così come è successo al suo principale alleato, Jacques Chirac, il quale ha imposto una Costituzione senz'anima non capendo che gli stessi francesi l'avrebbero rifiutata. Mai, in tutti questi anni, abbiamo potuto ascoltare da Prodi una visione così forte e un intento così deciso. Anzi, quelle che abbiamo sentito sono state quasi sempre parole di un sonnolento conservatorismo, che non hanno mai messo in discussione gli onerosi assetti di quella che egli ha definito «la vecchia e saggia Europa», cioè l'Europa dei sussidi e della rinuncia ad investire sul futuro, al di là della retorica di Lisbona.
Ma il vero problema non riguarda il passato, quanto il presente e il futuro. La ragione è semplice: sempre restando alla traduzione italiana della scelta di Blair, nell'alleanza di centrosinistra c'è oggi, sull'argomento, una sola visione espressa con chiarezza ed è quella di Fausto Bertinotti. È la visione che si può sintetizzare in poche parole, senza paura di smentita: meno liberismo e più intervento pubblico, meno flessibilità e più regole e tutele, meno innovazione nel Welfare e maggiore redistribuzione delle risorse. In altri termini un riformismo di direzione opposta a quello che, sul piano politico e culturale, ha preso corpo con l'esperienza del New Labour (anche grazie alla rivoluzione thatcheriana), a cui ormai viene universalmente riconosciuto il merito di aver costruito un sistema che costa meno degli altri e offre molto di più. Si tratta di un'esperienza che la sinistra italiana, nella sua grande maggioranza, considera «di destra». C'è una vastissima letteratura a testimoniarlo, anche se poi, a tempo scaduto e in sedi più accademiche che politiche, non sono mancati tanti riconoscimenti.
Se Bertinotti è esplicito e, con questi argomenti, darà battaglia durante le primarie, al contrario non è affatto comprensibile ciò che hanno da dire i suoi alleati. I quali danno il meglio di sé nel cavalcare il catastrofismo e nel chiedere «cambiamenti di rotta», ma si guardano bene dall'entrare nel merito delle scelte. Se ne capisce il perché, visto che chi lo fa - penso a Francesco Rutelli, quando parla di mercato del lavoro o di scuola e università - riesce soltanto a misurare il proprio isolamento e l'ostilità da cui è circondato.
Si può dire che non c'è nulla di nuovo, che questa è una vecchia storia che si trascina all'infinito e che le culture della sinistra faticano a fare i conti con l'innovazione delle politiche sociali. Ma adesso sarà un po' più difficile sfuggire alla risposta. La presidenza britannica dell'Unione Europea ha prospettato con chiarezza una svolta che riguarda in primo luogo Bruxelles, ma poi anche Roma, Parigi, Varsavia e così via.

Ci sono nella più piccola Unione italiana, quella delle sinistre, forze che non si rassegnano ad essere strette fra il conservatorismo prodiano e l'antagonismo di Bertinotti, e accetteranno di misurarsi con questa sfida?

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