La tragica storia di Beatrice Cenci al Libero

Cuomo rievoca la fosca vicenda della «vergine romana» parricida

Andrea Indini

Il Cinquecento riassume in sé le molteplici contraddizioni dell'Italia comunale. Portare a teatro la tragedia di Beatrice Cenci, detta anche la "vergine romana", significa ricreare un mondo fatto di leggi e costumi diversi dai nostri, ma non per questo dissimile dai giochi di potere a cui, ogni giorno, noi stessi assistiamo. A partire da questa sera, il palcoscenico del Teatro Libero ospiterà la pièce di Franco Cuomo, Addio amore (Beatrice Cenci), diretta da Walter Manfrè.
Beatrice Cenci, detta la "vergine romana", apparteneva a una dei più antichi casati patrizi di Roma. Figlia di Francesco Cenci, uomo dissoluto, brutale e crudele, secondo la tradizione, dopo il secondo matrimonio del padre, venne da questi tenuta prigioniera nella rocca di Petrella di Cicoli, feudo dei Colonna nel Regno di Napoli al confine con lo Stato Pontificio e concessogli da Marzio Colonna per sfuggire alla giustizia papale, e circondata di attenzioni incestuose. Beatrice tenta più volte di fuggire dalla rocca ma viene sempre ripresa dagli scherani dell’indegno genitore; alla fine, con la complicità della matrigna Lucrezia, di tre fratelli e del castellano della rocca in cui era stata rinchiusa, assolda due uomini d’arme che nella notte del 10 settembre 1598 uccidono il conte sfondandogli il cranio con un mazzuolo e precipitandone poi il corpo da un balcone per simulare una disgrazia.
Il delitto viene scoperto pochi mesi dopo. Processata per ordine di Papa Clemente VIII la è condannata a morte con gli esecutori e i fratelli e decapitata nel settembre del 1599 davanti a Castel Sant'Angelo. Alla sua storia sono ispirate numerose opere artistiche e letterarie, dal ritratto di Guido Reni ai racconti di Shelley, Stendhal, Dumas e Moravia.
L'azione del testo di Franco Cuomo si svolge nell'ultimo anno di vita di Beatrice, mettendo in risalto la condizione della donna e proiettandola verso un possibile futuro di emancipazione: Isabella Caserta, nei panni della protagonista, riesce con incanto a calamitare il pubblico attraverso il suo essere, nello stesso tempo, vittima e carnefice.
«Nella scrittura di Cuomo - spiega il regista - si intravede una critica al Cinquecento e al secolo successivo, il Secolo nero, momento in cui l'uomo, prendendo coscienza di non essere il solo e unico centro dell'universo, si lascia andare a una guerra spietata nei confronti di ogni libero pensiero». Colpisce, tuttavia, l'attenzione piena di afflato patetico rivolta alla sofferenza del personaggio: la Caserta riesce non solo a scolpire un personaggio femminile vittima della barbarie oscurantista del suo secolo, ma anche a dar vita a un'eroina di libertà e di forza.

«Questa ragazza diventa un simbolo - conclude Manfrè - il topos della giovane che riesce a liberarsi dalla sofferenza di questa prigione compiendo un delitto deprecabile, il parricidio: un anelito alla liberazione che, improponibile nel Secolo nero, diventa, alla luce della storia, desiderio di libertà».

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