Uccisa l’eroina delle donne afghane

Non sarò mai convinta che un Paese che ha bisogno di eroi è sfortunato. Credo invece che sia fortunato l’Afghanistan perché anche oggi ha dimostrato che è pieno di eroi, maschi e femmine, pronti a dare la vita. Certamente Malalai Kakar sapeva di correre ogni giorno un rischio altissimo. Di più, da poliziotta, difensore dei diritti delle donne, e nemica del burqa, aveva anche avuto l’ardire di uccidere tre talebani che avevano cercato di farla fuori. Questo non significa che ogni mattina, alzandosi per andare a fare il suo lavoro, scortata magari dal padre o dal fratello che facevano il suo stesso mestiere a Kandahar, dove i talebani sono ancora padroni, non pensasse: «Questo è l’ultimo giorno che ci riesco, questo è l’ultimo giorno che saluto i miei sei figli».
Malalai aveva 40 anni. Togliersi il burqa era stata la sfida imperdonabile. Di un’eroina così non ne ha bisogno soltanto l’Afghanistan, sia pur non cavandone ancora il sufficiente profitto, ma ne abbiamo bisogno anche noi, Europa accidiosa e sonnolenta, che fino in fondo certi sacrifici che servono anche a noi, non riesce a comprendere, a incoraggiare, a celebrare.
In quale condizione è avvenuta la vita, il lavoro e il sacrificio di questa donna? Sarà bene chiederselo, perché solo così potremo continuare a dirci che è fortunato il Paese che ha bisogno di eroi. La donna che lavorava al posto di Malalai Kakar fino a qualche tempo fa è morta come lei. È stata uccisa dai talebani perché il suo ruolo all’interno del distretto di polizia era di difesa dei diritti delle donne. Difendere i diritti delle donne in Afghanistan oggi significa quel che significava alla fine del 2001, quando, l’Onu concorde, si fece l’operazione di liberazione del Paese. Significa che le donne possano studiare, uscire di casa, lavorare, non essere considerate paria se sono vedove. Significa che possano decidere se velarsi il capo lasciando il volto scoperto oppure no. Stabilito all’inizio come un principio sacro del nuovo Afghanistan e della ventata d’aria nuova che le truppe alleate portavano, questo è diventato un principio da difendere, come vedete, con il sangue. La condizione delle donne, dice chi visita l’Afghanistan, è tornata ai vecchi tempi, dopo l’entusiasmo iniziale. Ecco perché una poliziotta, o un’insegnante o qualche gruppo di donne coraggiose che fanno parte di associazioni straniere, mandate lì per cercare di continuare nel nuovo, andrebbero aiutate, incoraggiate. Mentre vi scrivo non sono in grado di dirvi se questo avviene, tenderei a pensare che non sia così. Tenderei a pensare che le donne afghane in un Paese che risponde comunque a logiche tribali, siano l’elemento debole e tali tendano a rimanere.
Il discorso sul Paese è un discorso che avviene in buona parte in assenza di prove. Più difficile si è fatta negli ultimi tempi la possibilità di seguire i progressi dell’Afghanistan, più ambiguo e oscuro è diventato il rapporto del presidente Karzai, che resta un fedele amico dell’Occidente, con le resistenze locali. Soprattutto ci sono zone, come Kandahar, sulle cui strade trovò la morte Maria Grazia Cutuli, che sono terra di nessuno. Terra dei talebani, dell’integralismo islamico, degli amici di Al Qaida e dei seguaci di Osama Bin Laden.
La storia dell’Afghanistan negli ultimi tempi è stata trattata con maggiore leggerezza, a mio modesto parere, non solo dai governi avversari dell’operazione americana e dell’Onu, ma anche dai governi che alleati dovrebbero essere. Le truppe inviate, per naturali motivi di discordia interna, e anche per ragioni di stanchezza, non solo sono insufficienti, ma rischiano di esercitare sempre di più una missione di pace che è insufficiente, laddove ancora la pace stabilita non è.

Ecco perché si potrebbe, vinti dallo sconforto, dire che il sacrificio di Malalai è stato inutile e essere spinti a non fare gli auguri alla prossima che sicuramente prenderà il suo posto. Ma non possiamo e non vogliamo ragionare così.

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