Veltroni sotto l’ombrellone e il Pd perde i pezzi

L'ottimismo del "si può fare" è un ricordo, come i sorrisi da vice Obama. Era un sindaco decisionista, ma da segretario non decide nulla. Da Chiamparino a Bassolino, dalla Sardegna a Firenze, si moltiplicano le tensioni nel partito

Veltroni sotto l’ombrellone e il Pd perde i pezzi

Roma - Ma cosa succede a Walter Veltroni? Fra Chiamparino e Bassolino, chiuso nella tenaglia terrificante dei diminutivi, nelle rogne dell’estate e nell’enigma di un Pd che non c’è, dove è mai finito?
Che diamine gli succede, a Walter, perché non reagisce? La domanda, in questa torrida estate (poco) Democratica non se la fanno i suoi detrattori, quelli che lo hanno sempre combattuto e dipinto come «un kennediano de’ noantri», un riformista pallido, un leader invertebrato, un lombricone come lo tratteggiava Giorgio Forattini, o un «flaccido imbroglione», come si spinse a dipingerlo con uno dei tanti schizzi di veleno un non amabilissimo Massimo D’Alema (parlando con un testimone non sospetto come il grande Claudio Rinaldi).

A chiedersi che fine abbia fatto il Walter Veltroni smagliante, con il sorriso sempre stampato sul viso, quello che non sbagliava mai un colpo, in questa estate (non certo) Democratica, non sono i nemici politici che lo hanno irriso per le pancette esibite a Sabaudia, ma quelli che, vedendolo arrancare con l’ombrellone sul litorale romano, pensano che a loro è accaduto lo stesso e lo guardano con simpatia.

A preoccuparsi sono gli avversari privi di velleità sciacallesche che hanno creduto in lui come un leader forte su cui incardinare una stagione di dialogo, e i militanti progressisti che lo hanno immaginato come il padre fondatore di un nuovo corso politico. Sono gli elettori che pensavano potesse diventare un nuovo Zapatero e si sono ritrovati con un Pd «binettizzato». Con la sostanziale differenza che Paola Binetti perlomeno rischia e sceglie: mentre il Pd e il suo leader, sulle questioni etiche non scelgono mai.

A chiedersi cosa sia accaduto a Veltroni, in queste ore, sono i dirigenti del suo partito che lo immaginavano come un capo e un uomo-guida, e lo scoprono invece temporeggiatore ed incerto. Si preoccupano quelli che lo pensavano come il fabbro di una nuova sinistra, tutta passione, diritti civili e innovazione - un po’ Bob Kennedy e un po’ Obama - e quelli che lo avevano conosciuto come sindaco carismatico, capace di decidere e agire. Per dire: il primo cittadino Veltroni ci aveva messo una sola notte per sbaraccare con le ruspe i banchisti di Piazza Vittorio che a Roma si opponevano al nuovo e più igienico mercato coperto per puro istinto di conservazione; il Veltroni candidato premier ci ha messo due mesi per decidere se chiedere ad Antonio Bassolino di dimettersi da goveratore: alla fine lo ha fatto e non lo ha fatto, quello per giunta gli ha risposto picche, e solo pochi giorni fa - O’ Governatore, che era e resta un morto che cammina - gli ha pure aperto la fronda interna rifiutandosi di raccogliere le firme per la sua campagna nazionale, trincerandosi dietro il suo incarico istituzionale (manco fosse il Papa), e chiedendo pure un congresso del Pd (che Walter non vuole).

Stessa storia a Torino, dove Sergio Chiamparino grida all’assedio, manda messaggi in bottiglie aperte che paiono «lettere dal carcere» del Pd, denuncia le pressioni dei notabili, spiega che non prende la tessera e che non va alle feste, e lui ci mette quasi un mese per far sapere a La Stampa che il numero uno del Pd sta con il «Chiampa». La cosa fantastica è che uno dei rivoltosi antichiampariniani, l’onorevole Merlo, desume dalla stessa lettera che Veltroni sta con lui. Il che non può che avere tre risposte: o l’onorevole Merlo è ubriaco, o pensa di poter fare il furbo con il leader, oppure la lettera di Veltroni non è abbastanza chiara.

Ma anche in Sardegna, senza che i giornali nazionali se ne accorgessero, l’intera estate del Pd è stata occupata da una guerra balcanica fra i «soristi» (nel senso di Renato Soru) e gli anti-soristi. Tra cui il segretario regionale Antonello Cabras (diessino) che si è persino dimesso in polemica con il presidente della Regione, chiedendo le primarie. I soristi, dal canto loro, rispondevano: «Ma come, le primarie nell’unica regione d’Italia in cui il candidato c’è già?». E così anche in Sardegna ci sono state conte, adunate, bagni di sangue, alla fine, quando i morti erano già sul campo, è arrivato un proconsole veltroniano, il senatore Giorgio Tonini, a dire ai rivoltosi che bisognava civilmente trovare un’intesa con Soru; in un partito abituato a faide barbaricine, le parole del messo (con tutto il rispetto per il senatore Tonini) non hanno scosso gli animi. La neo-segretaria Francesca Barracciu, fra l’altro, è stata portata in tribunale dal consigliere provinciale Tonio Lai, convinto che la sua elezione vada invalidata dai magistrati. Per non parlare dei malumori singoli: a Firenze si candida a sindaco via sms l’assessore Cioni (il padre delle norme anti-lavavetri), uno che ha varato un regolamento comunale che fa sembrare il sindaco di Treviso Gentilini (quello che sbullonava le panchine per non farci sedere i barboni) un tipo permissivo: roba che se a Firenze ti sorprendono a mangiare un panino sulle scale di una chiesa ti multano. A Viterbo Ugo Sposetti - tesoriere della Quercia - scrive lettere appassionate per difendere le feste dell’Unità ed opporsi al cambio del nome - ma si ritrova i Pooh come massima attrazione della festa nazionale di Firenze. A Roma Arturo Parisi intenta ricorsi contro l’Assemblea nazionale. Solo il moto di rissosità perpetua del Pd cancella l’impressione del vuoto che si ricava dalla sua vita interna.

Chi si ricorda ancora il Veltroni sindaco decisionista che dirigeva i suoi assessori come foche ammaestrate, e che era in grado di controllare tutte le più minuscole decisioni della sua giunta, dai tragitti dei «pony della solidarietà», ai menù differenziati per i bambini, ai compleanni dei centenari, ai rifornimenti delle macchinette del caffè equo-solidali del Campidoglio (abolite pure quelle da Gianni Alemanno, in nome della difesa del caffè nazionale,) si chiede perché Veltroni faccia tanta fatica a prendere posizione e a difendere una linea (una qualsiasi).
Ieri il leader del Pd ha scritto una lettera a La Repubblica in cui chiunque faticherebbe a riconoscere l’ottimismo del suo «si può fare», e persino il modernismo del discorso di Spello che aprì la sua campagna elettorale. Ieri Veltroni pareva che si fosse preso come ghost writer non l’ottimo Claudio Novelli (il suo di sempre), ma il millenarista Paolo Flores d’Arcais, e scriveva cose come: «Non sei un cittadino ma un consumatore della società. Con questa certezza il nostro tempo finisce con il farsi vuoto di senso».

E intanto, sotto una facciata di buone maniere a cui non crede proprio nessuno, infuria una guerra con i dalemiani, combattuta persino a colpi di tv. Il vero problema non è più dire «qualcosa di sinistra» come esigeva un tempo Nanni Moretti da D’Alema. Ma perlomeno dire qualcosa di «veltroniano».

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