Venezia s’accende negli occhi di Scarlett

Stenio Solinas

nostro inviato a Venezia

Qualsiasi cosa Scarlett Johansson faccia, a noi va bene. Che sussurri ai cavalli, che indossi un orecchino di perla, che si annoi in una metropoli asiatica, che sbagli il match point sul campo da tennis come nella vita, staremo sempre lì a perderci in quegli occhi blu profondi come il mare, in quelle labbra tumide che promettono il paradiso in terra. Non è un giudizio critico, i giudizi critici li lasciamo agli esperti del settore, è un pregiudizio sentimentale, ovvero qualcosa che viene prima e a prescindere, rientra in un’altra categoria, e quindi, prendere o lasciare, anche qui, come in politica, non esiste la terza via. Quelli a cui Scarlett Johansson non piace (nessuno è perfetto...), possono anche fare a meno di leggere quest’articolo, non ne soffriranno, non ne soffriremo.
In Black Dahlia la Johansson è una dark lady, ovvero qualcosa di più di una semplice femme fatale che fa impazzire gli uomini, qualcosa di meno di un’arrivista senza scrupoli che gli uomini li lascia affogare. Ha una sua dignità, un suo codice d’onore e una sua moralità, e ciò che c’è di oscuro nel suo passato giustifica le ambiguità del suo presente e spiega le scelte, dolorose anche, ma irrevocabili, del suo futuro. Più che una sgualdrina o un’assassina, è un’avventuriera suo malgrado, ovvero la controparte perfetta di quella «generazione perduta» dei loosers, degli sconfitti, che ha avuto in Hammett, Chandler, Hemingway, Fitzgerald i suoi cantori. Cinematograficamente parlando, era una dark lady la Lauren Bacall del Grande sonno e di Acque del sud, la Dietrich di Shangai Express e della Taverna dei sette peccati, ma anche di Testimone d'accusa, la Hayworth di La signora di Shanghai, la Lake di Dalia azzurra e di La chiave di vetro...
Nel film di Brian De Palma Scarlett è Key, già donna di un gangster sadico e viscido che l’ha letteralmente marchiata a sangue e poi usata come strumento sessuale di affari, poi compagna e complice di un poliziotto corrotto e impotente che però le ha fatto balenare cosa la vita potrebbe essere: una casa confortevole, un’istruzione, bei vestiti, la rispettabilità. Ed è a tutto questo che Key si è aggrappata, a una finzione che ha però per lei il sapore della verità, dell’unica verità per la quale valga la pena di lottare.
«Non mi sono ispirata a nessuna attrice» dice la Johansson quando le fanno i nomi, sbagliati, di Lana Turner, di Barbara Stanwyck, le due star che hanno incarnato l’elemento dark nel nero assoluto del delitto in prima persona o per procura: «Ho cercato di disegnare il personaggio di una che conosce la vita, non si fa illusioni, ma insegue egualmente un sogno di normalità. Nel triangolo che si instaura fra lei e i due poliziotti, fra loro amici, dietro un’apparente fragilità bisognosa di protezione è la più forte, quella che sa scegliere d'intuito cosa è giusto fare». L’annotazione sulla mancanza di modelli è sintomatica. Ventun'anni compiuti da poco, la Johansson non ha il fascino ambiguo della Bacall o della Dietrich, il fisico esplosivo della Hayworth, la durezza della Stanwyck e quanto a Veronica Lake l’unica cosa in comune è l’altezza... E tuttavia è perfetta proprio nel suo giocare a fare un’altra, la ragazza che fa la signora e la donna di casa, con indosso ora il golf di cashemere ora il grembiule da cucina, che fuma con il bocchino in una mano e tenendo l’altro braccio a sostegno, come ha visto fare a quelle più grandi di lei, ma che nel buio di una sala cinematografica torna ad avere la sua età, si esalta e si commuove, vuole che la finzione sia, appunto, la realtà.
Dice Brian De Palma che una delle ragioni che l’hanno indotto a sceglierla per quella parte, è che il suo «è un volto anni Quaranta, qualcosa che ricorda il passato». E in effetti pur nella modernità che ne fa una perfetta contemporanea delle ventenni di oggi, è una bellezza antica alla quale la profondità della voce, un tono basso che a volte è un rauco sussurro, aggiunge un elemento non indifferente di sensualità, una carnalità che aspetta solo di concedersi. È anche per questo che nel duello con la vera mantide omicida della storia, Hilary Swank, non c’è partita.

Qui infatti tutti gli elementi oscuri che concorrono a delineare il nero della devianza criminale sono così evidenti che la dannazione è solo perdizione, laddove nel personaggio della Johansson è l’ambiguità fra ciò che si è stati e ciò che si vuole essere, l’intreccio fra amore e dolore, abiezione e riscatto, a esaltarne il fragile fascino.
Forse adesso sarà più chiaro perché, qualunque cosa Scarlett Johansson faccia, a noi va bene. Se poi volete anche sapere se Black Dahlia è bello o brutto, leggete il critico qui accanto.
Stenio Solinas

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