Venturini, tre vite distrutte perché oggi altri siano salvi

La confessione di Carlo Panella: «C’ero anch’io» Dopo 34 anni la legge che aiuta le vittime della violenza politica

Venturini, tre vite distrutte perché oggi altri siano salvi

Luca Telese

«Quella bottiglia? Forse l’ho tirata io». Carlo Panella nel 1970 era un ragazzo di ventidue anni, militante di Lotta Continua a Genova. Oggi fa lo scrittore e il giornalista, a Mediaset. Ha pubblicato romanzi autobiografici e non, una biografia di Saddam Hussein, un saggio sull’estremismo islamico: appare spesso in televisione come commentatore di politica estera, è un opinionista caustico ed efficace che conosce perfettamente il peso delle parole e la forza delle provocazioni intellettuali. Ha una folta barba e i capelli sale e pepe, due occhi verde-azzurro che – quando ricorda - si spalancano sull’interlocutore.
C’era anche lui, il 18 aprile in piazza, e mentre ripete quella frase sa benissimo quale stupore susciti in chi lo ascolta, anche se dopo trent’anni ogni reato è ormai prescritto, e le uniche responsabilità possibili - archiviate quelle penali – sono quelle politiche, o morali: «Intendiamoci. Io non so, e nessuno esattamente può sapere, oggi, quali degli innumerevoli oggetti che abbiamo tirato verso i missini abbiamo colpito il povero Venturini. Nemmeno so quelli che hanno tirato gli altri, e i tantissimi che si abbatterono su di noi, lanciati dai fascisti. So anche che il povero Venturnini non morì a causa dell'entità della ferita, ma solo perché qualcuno non gli fece l'antitetanica. Una morte assurda, che non era conseguenza dell'intensità di uno scontro di piazza, ma di una serie di concause disgraziate. Certo, io che ero lì, in prima fila, e che ho fatto la mia parte. Oggi mi prendo la mia porzione di responsabilità, anche se nessuno immaginava che da una giornata così potesse scappare un morto, che infatti fu ucciso non dai nostri sassi, ma da un virus. Eppure io c’ero, ho tirato sassi e bottiglie. Perché? Perché tutti quanti, sia ‘noi’ che ‘loro’, i missini intendo, ripercorrevamo lo spartito esausto del luglio 1960, quello della conquista della città rossa e della grande mobilitazione antifascista che la impedisse, quella del comizio che espugnasse la città medaglia d’oro della Resistenza, eccetera eccetera. Quel giorno a Brignole erano quattro gatti i missini ed eravamo quattro gatti noi. Oggi non si può capire che cosa ci portasse lì, se non si ha presente il quadro di quegli anni. C’era stata la spedizione punitiva guidata a ‘La Sapienza’. C’erano stati la strage fascista e un tentativo di golpe, c’era la violenza quotidiana degli squadristi fascisti che a noi sembrava un pericolo mortale per la democrazia, e un pericolo per l’incolumità di molti lo era davvero. A torto o a ragione tutti i crimini di marca fascista per noi si identificavano nel Msi. A torto o a ragione per noi Almirante era il simbolo di tutto questo, e impedirgli di parlare un dovere civile».
Allora chiedo a Panella che cosa prova rileggere la collezione di Lotta Continua, il giornale che ha scritto e diffuso, e che al lettore di oggi appare spietato nella rivendicazione di ogni delitto: «Il nostro linguaggio era violento? Se me lo chiedi ti rispondo di sì, anche se aggiungo che tutta la politica, tutta la società lo erano. Non lo dico per giustificarmi, ovvio, ma per spiegare il contesto di quegli anni. Se giravi con i capelli lunghi di cinque centimetri sul collo rischiavi l’espulsione da scuola o una aggressione in strada; comprare una pillola anticoncezionale era un’impresa semi- impossibile. Ma voglio anche aggiungere, solo per chiarire, che in questo non eravamo certo soli. Ricordo benissimo che i civilissimi e democraticissimi lavoratori della Cgil, al Motta grill di Cantagallo incrociarono le braccia per impedire ad Almirante persino di prendere un caffè. Ci scrissero addirittura una canzone sopra, per ricordare lo storico evento, e si intitolava proprio così: ‘Almirante voleva mangiare’ . Com’è che faceva? Oddìo, sapevo anche le parole a memoria, ma adesso non me la ricordo più. Almirante, Almirante...».
“Era giorno e faceva gran caldo,/
Almirante affamato sbuffava/
di mangiare a Bologna sperava/
e al suo autista ordinò di frenar/.
Ferma al Motta di Cantagallo/
Per pranzare e per fare benzina/
Ma il gran caldo di quella mattina/
Per un pezzo dovrà ricordar…/
Per un pezzo dovrà ri-cor-dar!/
Coi suoi bravi sedette era stanco/
Poi si alzò per andare nel bagno/
Ma lo vide un barista compagno/
E ad un tratto la lotta scattò…/
E ad un tratto la lot-ta scat-tò!/”.
(Il canzoniere delle Lame, “Almirante voleva mangiare”, 1973)
Assunta Almirante, 2004:
«Certo che me lo ricordo: c’ero. Era il 1973. Tornavamo da Bologna, eravamo in macchina insieme a mio figlio e a Michele Marchio. Giorgio doveva essere a Roma per le consultazioni con Leone. Marchio, era abbastanza robusto sia di corporatura che di appetito, non so se mi spiego. Disse a mio marito: ‘Fermiamoci a mangiare qualcosa. Beh, sa vuol dire che dopo trent’anni mi ricordo tutto? Ci sedemmo al tavolo, io avevo ordinato lenticchie e cotechino, mio marito una pastasciutta. Stavamo finendo il primo quando Giorgio alzandosi da tavola vede una scena surreale: i lavoratori dell’Autogrill sono tutti in piedi a braccia conserte, non servono più i clienti che in fila protestano e si sentono rispondere: ‘Siamo in sciopero’. Allora mio marito chiama il direttore del ristorante e gli fa: ‘Scusi, questo silenzio è in mio onore?’. Quello imbarazzatissimo gli fa: ‘Purtroppo sì, sono mortificato’. E lui, impassibile: ‘Ah, capisco’».
C’è Almirante si sparge la voce/
È arrivato con i suoi camerati/
Che si aspettan di esser serviti/
Ma oggi in bianco dovranno restar/
Basta un cenno e tutti i compagni/
dal self service ai distributori/
ai fascisti e ai fucilatori/
gli gridavan: Qui posto non c’è!/
Marzabotto è ancor troppo vicina/
Faccia presto ad alzare le suole/
Nelle fogne può dir ciò che vuole/
Ma a Bologna non deve parlar/
Ma a Bologna non deve parlar!/””
(Il Canzoniere delle lame: “Almirante voleva mangiar”)
Assunta Almirante:
«Giorgio viene al tavolo e, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, ci fa: ‘Andiamo’. Beh, io no: io non mi muovo. Per tigna resto, per tigna. E gli dico: ‘Prima voglio mangiare anche la frutta’. Vado, mi servo da sola: tutti aspettano solo me. Alla fine Marchio chiede il conto, e si infuria quando scopre che gli hanno addebitato anche il famoso secondo che non ha consumato. Allora sbotta e dice al direttore, proprio con queste parole: ‘Che eravate figli di puttana lo sapevo. Ma che foste anche ladri proprio non me lo potevo immaginare’. Proprio così, papale papale. Sempre più mortificato il direttore si scusa e depenna i piatti che non ci avevano servito. Va bene, usciamo. Andiamo a mettere benzina, ma anche alla pompa la stessa scena, braccia incrociate, nulla da fare. Io ero veramente fuori di me. Ma Giorgio nulla, impassibile, come se stesse accadendo a un’altra persona. Mi diceva: ‘È la battaglia politica, è normale’. Credo che tutti gli episodi di questo tipo che gli sono successi, in trent’anni, non gli abbiano lasciato nemmeno un segno. Era fatto così».
“Fu così che schiumante di rabbia/
Pancia vuota e senza benzina/
Cantagallo dovette lasciar/”
(Il Canzoniere delle lame: “Almirante voleva mangiar”)
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Sull’elenco del telefono di Genova il nome di Rita Travelli (come la chiama il Secolo d’Italia) o Trivelli, come la chiamano gli altri giornali, non c’è. E non c’è nemmeno quello del suo secondo marito, Francesco Borghini. Rita non aveva parenti a Genova. Nemmeno Ugo, dopo la scomparsa dei genitori emigrati da Cerreto Guidi in cerca di fortuna a Genova, nel lontano 1920. Il padre Giovanni aveva aderito al fascismo durante gli anni del regime: «A modo mio – aveva raccontato a Luciano Cirri, giornalista del Borghese e futuro animatore de Il Bagaglino – senza pennacchi né lustrini. Fascista per riconoscenza, si potrebbe dire: per via delle leggi sociali sul lavoro, per la garanzia del posto, la previdenza la mutua. Fascista senza politica, come eravamo in tanti». Ma oggi Giovanni e sua moglie, Leonida sono morti da tanto tempo, due famiglie sembrano essersi estinte nel nulla, dopo quel delitto, senza lasciare tracce.
Allora vado a Molassana, nella periferia della città, al vecchio indirizzo dove i Venturini abitavano nel 1970. Al numero 31 molti inquilini sono arrivati in anni recenti, ma abitano ancora i signori Peria, che erano vicini di casa della famiglia. Giovanni, il marito ha un’ottima memoria: «Ugo? Me lo ricordo, eccome. Una persona riservata, per bene: non avevo mai saputo che facesse politica, prima di quello che accadde il giorno del comizio. La signora Rita rimase ad abitare qui per lungo tempo, anche dopo il secondo matrimonio. Poi successe quel che successe…». Chiedo al signor Perria: perché, cosa accadde? E lui: “Ma come, non lo sa? Non stava più bene, non aveva mai recuperato davvero…. Si è suicidata, proprio nel suo appartamento, con un cordone della tenda. È stata una storia terribile”.
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Nel 1993 il giudice istruttore Guido Salvini, che sta lavorando all’ultima inchiesta sulla strage di piazza Fontana, emette tre informazioni di garanzia. Una di queste riguarda Martino Siciliano, ex esponente di Ordine Nuovo nel Veneto, a lungo latitante in Venezuela. Nel corso degli interrogatori l’ex neofascista fa delle rivelazioni importanti, non solo sull’inchiesta per la strage che lo ha portato in cella, ma anche sul famoso episodio dell’autogrill di Cantagallo: «Il nostro ambiente – racconta Siciliano - subì l'episodio come un affronto non solo per l'Msi in quanto tale, ma anche per Ordine Nuovo che era rientrato nel Msi, e che vedeva inoltre nell'onorevole Almirante, benché non sulle nostre posizioni, un simbolo per tutta la destra. Si discusse quindi, in Via Mestrina, sulla possibilità di dare una risposta forte a tale affronto e Zorzi, in particolare, progettò la collocazione da parte del nostro gruppo di un ordigno esplosivo all'esterno dell'autogrill, collocandolo in particolare in prossimità di tubi o bombole di gas al fine di aumentare la potenza dell'esplosione».
Una rivelazione che mette ancora oggi i brividi, e che prefigura una strage terrificante. Se non che un “imprevisto” che valutato con il senno di poi oscilla tra il tragico e il provvidenziale, mandò a monte il piano: «Il progetto – rivela l’ex ordinovista ai magistrati - si arrestò in quanto l’Msi prese una propria autonoma iniziativa che si concretizzò in una spedizione punitiva all'Autogrill capeggiata da Pietro Cerullo che all'epoca era uno dei responsabili giovanili del Partito a livello nazionale. La spedizione ebbe notevole risalto, sfociò nel danneggiamento dell’autogrill e in tafferugli con i camerieri che erano stati responsabili dell’episodio contro Almirante. Di conseguenza un nostro ulteriore intervento, perdipiù di quella gravità, avrebbe finito col mettere in difficoltà il partito in cui eravamo ormai inseriti. Quindi, dato il notevole risalto che ebbe l’iniziativa condotta dall'onorevole Cerullo, abbandonammo il nostro progetto».
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È il 5 febbraio del 2004. A Montecitorio comincia l’esame di una legge che sarà approvata nell’estate dello stesso anno, in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi. Il testo nasce da proposte di legge di deputati di diversi schieramenti, da Walter Bielli, deputato dei Ds, a Giorgio Bornacin, deputato di An, è uno dei rari (e migliori) frutti di un lavoro unitario, realizzato nella legislatura, al di là delle apprtenze dei poli.
La nostra storia finisce in quest’Aula, nel giorno in cui finalmente sono approvati sussidi per le vittime e per il loro parenti, vittime della violenza politica. La nostra storia finisce qui perché l’intervento di Bornacin chiude un cerchio che si è aperto 34 anni prima: «Oggi si parla tanto di terrorismo per dire che lo abbiamo sconfitto. È vero. Ma io ricordo che la prima uscita dei gruppi terroristi avvenne il 16 aprile (…) Io avevo 21 anni, accanto a me venne colpito da una bottiglia piena di sabbia un operaio di 33 anni che si chiamava Ugo Venturini. Io lo considero una vittima del terrorismo, però per la sua famiglia non potete più fare niente, non possiamo più fare niente: il figlio è finito nel tunnel della droga e non si sa più che fine abbia fatto, la moglie, dopo tanti anni ha deciso di porre fine al fardello della sua vita suicidandosi».
Chi era davvero Ugo Venturini? Lo squadrista odiato dagli extraparlamentari o il volontario del soccorso? Un guerrigliero caduto o una vittima incolpevole? Scavare nel passato senza imporsi filtri o tesi precostituite non porta a una verità, ma fa emergere tante verità sincretiche, e a volte anche contradditorie.

Mette in luce nuovi dubbi, ma consolida poche importanti certezze. Finisce qui, la nostra storia, perché può accadere che una sola bottiglia distrugga tre vite, ma che la morte di un uomo contribuisca alla salvezza di altri. Anche trentaquattro anni dopo.
(4 - Fine)

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