La "vera" storia della musica (americana) secondo Ahmir Questlove Thompson

Lo storico batterista del gruppo The Roots ripercorre 50 anni di cultura pop tra "pezzi" leggendari, aneddoti, frecciate e una personalissima playlist

La "vera" storia della musica (americana) secondo Ahmir Questlove Thompson

Non sarebbe male disporre di una macchina del tempo. A chi non è capitato di pensarlo? Ahmir Questlove Thompson, batterista dei The Roots, band di musica afroamericana a tutto tondo da lui stesso formata e pluripremiato produttore di numerosi dischi, lo ha pure scritto. Anzi, ci ha fondato sopra un libro, Musica è storia (Jimenez, pagg. 384, euro 24, trad. Alessandro Besselva Averame), un saggio che gravita tra la ricostruzione del suo percorso umano dal 1971, anno della sua nascita, ai giorni nostri e un'analisi molto personale della musica che lo ha accompagnato.

Ogni capitolo di Musica è storia è introdotto dall'anno di riferimento, con uno stringato elenco dei relativi eventi cardine. Naturalmente la selezione dei fatti è fortemente incentrata sugli Stati Uniti e, soprattutto, sull'universo afroamericano. E, a intervalli irregolari, Questlove inserisce al termine di un capitolo un paio di paginette con consigli di ascolto o sorprendenti frecciate o critiche, come quando accusa in maniera aperta Rod Stewart di aver tratto la melodia di Do ya think I'm sexy da un oscuro brano di Bobby Womack.

Non manca la tanto vituperata black attitude l'aggressività spesso caricaturizzata del nero arrabbiato perché nero, ghettizzato e sfruttato ma la vena personalissima di Questlove anima uno spirito critico a 360 gradi che non si perita di mettere alla berlina quelle che, a suo dire, sono debolezze ataviche del movimento afroamericano di liberazione. E, con la stessa convinzione, Questlove esalta la forza della cultura e della musica della sua comunità, senza rinunciare a dare a Cesare quel che a Cesare non si può sottrarre, per esempio sottolineando la bellezza di singoli new wave inglesi (come Everybody wants to rule the world dei Tears for Fears) che al classico homie, il ragazzino nero del ghetto con felpa di due misure più grande del dovuto, scarpe da ginnastica slacciate, cappellino da baseball di traverso e, magari, catenone di finto oro, proprio non andrebbe mai giù.

Questlove utilizza un approccio volutamente non lineare, come nel caso di uno dei brani più discussi del canzoniere americano, Bitter Fruit, una riflessione sul linciaggio di un nero che tutti ricordano nell'interpretazione iconica di Billie Holiday, ma che non si sa esattamente come finì in mano sua. Si sa solo che il gestore del Café Society di New York presso cui la Holiday si esibiva pretendeva che fosse l'ultimo pezzo di ogni sua esibizione per evitare che la sua crudezza nauseasse gli spettatori benpensanti durante la cena. E qui esce l'identità afroamericana dell'autore. I tardi anni Sessanta erano stati un momento di grande speranza per l'America e il mondo in generale, ma soprattutto per la comunità dei neri degli Stati Uniti. Però, come dice Questlove, «la fine degli anni Sessanta trascorse senza produrre l'utopia». È così che spiega la svolta nella carriera del grande cantante soul Marvin Gaye, poco incline ai dettami di scuderia della Motown, la fucina di talenti discografici di Detroit che avrebbe voluto che procedesse sui rassicuranti binari della produzione di singoli di successo e di facile consumo. Gaye, viceversa, optò per un sound più maturo e una scelta lirica di rottura, con un'evidente sterzata verso atmosfere più fosche. Insomma, un reflusso quasi da depressione oltre che da maturità sociale.

Stupisce maggiormente la passione dichiarata di Questlove per il cantautore afroamericano più amato dai bianchi e, tutto sommato, più detestato dai neri per la sua ecumenicità: Bill Withers. Con tre brani epocali come Ain't no sunshine, Lean on me e Use me, si assicurò un avvenire dorato, vestendo di soul e funk poco stradaiolo i suoi testi semplici ed efficacissimi e le sue melodie senza tempo. Ancor più sorprendente è scoprire che Live at Carnegie Hall, un concerto del 1972, è per Questlove un album seminale.

Varrebbe la pena conoscere bene l'inglese solo per capire i due minuti del monologo di Withers che anticipa il brano Grandma's Hands. E Withers è il suo rimpianto: provò a blandirlo varie volte per fare un disco con lui, ma si sentì sempre rispondere picche.

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