Quella demenziale euforia che si era diffusa nel Pd dopo il voto europeo sembra improvvisamente scemata. Una profonda depressione sembra affliggere adesso il partito di Franceschini. Le prime cattive notizie sono arrivate dall’avvio della campagna congressuale. Non hanno fatto neppure a tempo a candidarsi, sia Franceschini sia Bersani, che già il duello che si prepara all’orizzonte vede in pista i due nemici di sempre, D’Alema e Veltroni. Come fa a non essere depresso un partito quando la scena è occupata sempre dagli stessi protagonisti? I blog sono stati invasi da internauti sconcertati dal solito spettacolo. Voltate pagina, è l’appello generale.
Anche il tono della campagna congressuale è diventato particolarmente più aspro. A Veltroni che diffondeva l’invito al ritorno allo spirito del Lingotto, Arturo Parisi, con la sua consueta franchezza, ricordava che il Pd il «Lingotto l’aveva preso in testa». Ormai sono molti a pensare che questo congresso, che sembra sempre più una resa dei conti, non si deve svolgere. Non per le «scosse» che D'Alema ha vaticinato, ma per l’ingestibilità di un dibattito in cui non è chiaro chi può vincere e soprattutto che cosa si vince al termine di una contesa che sarà molto aspra. La paura della divisione inconciliabile toglie il sonno a tutti quelli che sanno quanto il partito sia fragile e quanto sia vicino il rischio della crisi strutturale.
Dall’euforia alla paura. È questo il sentimento che avverto. E la paura ha molte facce. Oggi si chiuderanno le urne elettorali per il ballottaggio. Sulla carta il centrosinistra è favorito. Sono in gioco 22 province e 98 comuni. Molti sono stati amministrati dalla sinistra e sono stati costretti al secondo turno da un risultato imprevedibile e imprevisto. Gli occhi sono puntati sulle due città-simbolo, Firenze e Bologna. Qui il centrosinistra parte in vantaggio ma a Firenze deve fare i conti con il dissenso della sinistra radical e con i socialisti di Valdo Spini e a Bologna ha un candidato azzoppato da uno scandalo e dal malumore della base ex Ds. Si vota anche a Bari, dove Michele Emiliano sulla carta ha bisogno solo di 700 voti per farcela. Se Renzi, Delbono e Emiliano dovessero vincere il sospiro di sollievo sarebbe accompagnato, in una parte del Pd, dalla amara constatazione che nessuno dei tre candidati viene dalla tradizione della sinistra. Per vincere la sinistra deve nascondersi. Per questo la battaglia di Milano farà la differenza. Qui c’è Filippo Penati, un vecchio esponente della sinistra che ha sposato molte tesi leghiste e che deve far fronte alla voglia di rivincita del centrodestra. Se Penati dovesse fallire, il senso del voto amministrativo cambierebbe e cambierebbe anche la topografia interna al Pd che vedrebbe punito l’unico candidato che viene dai vecchi Ds. Ma non c’è solo la paura di perdere Milano. Se a Padova o Taranto o Brindisi o Prato o Rimini o Ancona o in qualunque altro luogo simbolo del centrosinistra dovesse andar male, il rischio di pronostici infausti sull’avvenire del Pd aumenterebbe.
La seconda paura riguarda il referendum. Il Pd, con molti dissensi, si è esposto con tutti i suoi massimi dirigenti a favore della battaglia referendaria. Il Pd è probabilmente l’unico partito ad aver sposato i quesiti di Guzzetta e Segni ed è quello che dovrà fare i conti amari con l’insuccesso. Come sarà possibile far finta di nulla quando gran parte degli elettori avrà scelto di astenersi senza neppure l’alibi estivo dell’andare al mare? L’opzione referendaria è stata la più paradossale di tutta la vita recente del Pd. Fieramente antiberlusconiano, ha tifato per quesiti che rischiavano di dare tutto il potere al Pdl. L’intero dibattito post-Veltroni è stato dedicato a seppellire il «partito a vocazione maggioritaria» e poi Franceschini si è speso per imporre la riunificazione forzosa di tutto il centrosinistra in un unico aggregato elettorale. Il fallimento del referendum restituisce nella sua interezza il problema dei problemi: che cosa fare di quell’otto per cento scarso di irriducibili che si sono orientati verso liste di sinistra. La scelta referendaria ha aperto una ferita grave. Se il quorum fosse raggiunto il Pd potrebbe turarsi il naso e accogliere tutti. In caso contrario come può sfuggire ad un dibattito su una coalizione formata da alleati impresentabili?
Infine la terza paura. Che ha il nome di sempre: Berlusconi. Il Pd ha di fronte a sé due scenari. Uno l’ha descritto ieri Eugenio Scalfari. Berlusconi si arrende e passa la mano. Al suo posto un governo istituzionale guidato da Gianfranco Fini che si dovrebbe sorreggere sui voti di Franceschini. Immagino l’entusiasmo a sinistra se ci si dovesse trovare di fronte, in nome della cacciata dell’antico nemico, a un governo diretto dal co-fondatore del Pdl che acquisterebbe in questo modo un gigantesco vantaggio nelle inevitabili elezioni politiche. Posso fare fin d’ora l’elenco di quelli che si opporrebbero. La terza paura non riguarda solo questa ipotesi fantapolitica ma lo scenario più probabile che minaccia di realizzarsi. Cioè questo. Berlusconi resiste alla campagna di stampa e non si dimette. Non sono amico del Cavaliere e non ho accesso ai suoi segreti pensieri. Lo studio da anni e ritengo che l’ipotesi che si esalti nella battaglia sia quella più probabile. Che fa allora il Pd? Ha davanti a sé due strade. Rinuncia alla battaglia frontale e si trova isolato da quello stesso moto di opinione pubblica che ha sollecitato e viene investito dall’ira dei giornali del gruppo De Benedetti. Oppure alza al massimo il tono dello scontro trasformando la campagna giornalistica in una crisi istituzionale.
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