Vi racconto la mia odissea per disdire il canone Rai

Dopo aver pagato per anni pur senza avere in casa una tv funzionante, ho deciso di rescindere l’abbonamento: missione impossibile. Se volete aderire alla campagna contro il canone scrivete al direttore Vittorio Feltri: nocanone@ilgiornale.it. Scaricate e inviate il modulo per disdire l'abbonamento. Dove si trovano i gazebo per le adesioni

Vi racconto la mia odissea 
per disdire il canone Rai

Caro direttore, credo d’essere un esemplare di contribuente quasi unico in Italia. Se mi prometti di non darmi del bamba, ti svelo perché: da dieci anni pago il canone Rai senza possedere un televisore funzionante. Quindi ho deciso di aderire alla campagna del Giornale. Ebbene sì, voglio disdire l’abbonamento anch’io. In altri tempi, te lo dico con sincerità, non l’avrei mai fatto. Ignoro se c’entrasse il principio di non contraddizione: ho lavorato per la Rai e non abbonarsi a se stessi, credimi, è una grande fatica. Anche adesso non avrei motivi personali di doglianza verso questa che tutto sommato resta una signora azienda: dalle 21 a mezzanotte di solito leggo, e in ogni caso non ho mai visto, dico mai, una trasmissione in cui comparissero insieme Michele Santoro e Marco Travaglio (normale profilassi epatica, ci tengo alle mie transaminasi), quindi è impossibile che l’ineffabile duo possa darmi sui nervi. Ma dopo aver letto delle loro ultime imprese aderisco per solidarietà al tuo pertinente moto di ribellione.

Preciso subito: non è che non possieda il televisore. Anzi, in casa di caminetti catodici ce ne sono addirittura quattro, fra grandi e piccoli, e non riscaldano granché. Quella che non ho è l’antenna. Dimmi tu a che serve un televisore senza l’antenna. È come un martello senza manico: non puoi farne niente (questa era di Enzo Biagi, l’aveva sentita da un ingegnere dell’Ala littoria, Bruno Velani, diventato poi il primo amministratore delegato dell’Alitalia, che la riferiva agli uomini senza carattere, però mi pare che si adatti bene anche ai cinescopi senz’anima).

L’antenna non è stata abbattuta da un fulmine. L’ho fatta smantellare io. Ho assecondato un impulso estetico: mi sembrava che quel trespolo per storni sui coppi deturpasse il circostante panorama agreste. Soprattutto era perfettamente inutile. Sono andato a vivere in una zona d’ombra, una vallata dove la Rai incassa il canone senza mandare in onda alcunché, causa insuperabili ostacoli orografici. Con l’antenna o senza l’antenna, sul video baluginava sempre e comunque una marea di puntini bianconeri. Dicono che adesso sta per arrivare il digitale terrestre. E che m’importa? Qui il segnale non mi raggiungerà mai. Mancano i ripetitori. E quei pochi esistenti sono orientati verso sud, mentre io abito a nord.
Al danno, si sa, s’aggiunge sempre la beffa. In pratica la Rai mi ha obbligato ad abbonarmi a Sky, una ciufeca imbevibile, e a sborsare tutti i mesi 41 euro, cioè ogni giorno più di quanto costa in edicola il nostro quotidiano, solo per poter sbirciare via satellite i titoli del Tg1 e del Tg2, come i doveri professionali m’impongono.
A questo punto, però, mi sembrava improprio, direi quasi riduttivo, disdettare il canone utilizzando il modulo standard che abbiamo pubblicato in prima pagina. La mia situazione meritava un supplemento d’indagine. Per prima cosa sono dunque andato a rileggermi il Regio decreto legge del 21 febbraio 1938, numero 246, avente per oggetto «Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni». È il pretesto giuridico fascista - in certi casi l’antifascismo può attendere - con cui la Rai, di concerto con l’Agenzia delle entrate, ha trasformato il canone in una tassa di possesso sul televisore per giustificarne l’indebita riscossione. Non si capisce che cosa c’entrino le radioaudizioni (di allora) con le televisioni (di oggi), tant’è vero che non esiste una tassa sul possesso della radio.

Pensa, direttore, all’astuzia luciferina di chi redasse l’articolo 1 di quel regio decreto, consegnando alla storia una straordinaria prova della famelicità che contraddistingue i lungimiranti gabellieri di tutte le epoche: «Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento». Atti o adattabili. Sta a vedere che col tempo introdurranno la tassa di possesso sulla lavatrice: un po’ di transistor nel cestello, qualche cavetto, due manopole in più, che ci vuole ad adattare a video un oblò?

Legalista come sono, m’è venuto uno scrupolo: il fatto che il televisore di casa, benché privo di antenna, resti comunque potenzialmente collegabile in futuro a un pennone sul tetto, mi obbliga sì o no al versamento? Ho cercato lumi presso la Tv di Stato. Prima telefonata: al 199.123.000. Voce registrata: «Servizio Risponderai», indicativo futuro, seconda persona singolare, nel senso di Risponde Rai, e già avverti un prolasso delle gonadi. Superati quattro sottomenù con le opzioni più fantasiose, inclusa quella riservata agli aspiranti candidati dei telequiz, finalmente mi risponde una persona vera, l’operatore 1508. Gli spiego che ho tolto l’antenna e gli chiedo se devo pagare lo stesso il canone. Il primo responso è da teatro dell’assurdo: «Eh sì, o regala il televisore a qualcuno o lo fa rottamare». Mi faccia capire bene, dovrei prendere a martellate un Samsung al plasma da 63 pollici? A questo punto tira in ballo la Guardia di finanza e la tassa di possesso. Insisto: non so se sono stato chiaro, possiedo un oggetto monco, che non riceve per mancanza di un pezzo indispensabile, l’antenna; ha presente un’auto senza le ruote o un ferro da stiro senza la spina?, faccia conto che il mio televisore sia un acquario, in nessuna maniera può captare i programmi terrestri Rai, e per quelli satellitari pago il canone a Sky che me li porta dentro casa col suo decoder. L’operatore 1508 si arrende all’evidenza della logica: «Il suo caso è decisamente particolare. Chiedo a un responsabile. Se mi attende un attimino in linea...». Attendo. L’attimino dura un minuto e mezzo. Niente da fare, il responsabile non vuol prendersi questa responsabilità. Mi viene fornito il numero del call center tecnico: «Le invieranno sicuramente qualcuno a visionare».

Seconda telefonata, stavolta all’800.111.555, il call center tecnico: «Rai Way, servizio assistenza clienti». Solita trafila. Due minuti in compagnia di Vivaldi, aspettando che si liberi l’operatore 555. Dopo le mie dettagliate spiegazioni, s’intuisce, giusto per restare alle armonie veneziane, che è smonatissimo: «Non ho capito. Qual è la disputa, scusi?», esala. L’accento toscano rafforza il sussiego. Gli ripeto l’antifona. «Vuol disdire il canone? Lo faccia!», ora il tono s’è fatto gagliardo e sprezzante, «questo è un ufficio tecnico». Appunto, il suo collega di Risponde Rai mi ha detto che dovete venire a casa mia per compiere un sopralluogo tecnico. «Lavoriamo soltanto sui ripetitori. Non capisco perché le abbiano dato questo numero. Noi non siamo della Rai». Ma è Risponde Rai o Risponde Mai? Prima di riattaccare, una benevola concessione: «Ha detto che chiama dal Veneto? Se vuole provo a darle il numero dell’ufficio abbonamenti della sua regione». Voglio. «041.5040164».
Terza telefonata. A Venezia, stavolta. Aria di casa. Ore 16.11 di mercoledì scorso: lo 041.5040164 squilla a vuoto per due minuti, poi cade la linea.

Ieri, giovedì, nuovo tentativo alle ore 9.17: occupato. Altro tentativo alle ore 9.31: occupato. Ore 9.41: occupato. Ore 10.05: occupato. Ore 10.20: occupato. Ecco, almeno adesso di buoni motivi per disdire il canone Rai ne ho una mezza dozzina.

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