Vi racconto il mio amico Gianfranco

Sì, io lo conoscevo bene. Sarà stato il 1971, o forse l’anno dopo, in fondo poco importa, e Gianfranco Funari il pomeriggio del martedì e del giovedì veniva a San Siro. L’ippodromo, non lo stadio. Del trotto, per la precisione, il galoppo non gli piaceva mica tanto. Guardava le corse nel parterre attaccato allo steccato, standosene sempre in piedi, il borsello a tracolla, i capelli lunghi alla paggetto, il cappottino corto, il colbacco se faceva particolarmente freddo, il sorriso beffardo, il romanesco stretto a portata di bocca. E dava giudizi tecnici, quasi pontificando, con l’aria serissima dell’intenditore, poi finiva per scegliere il favorito. Preferibilmente come piazzato. L’antitesi del giocatore, insomma. Puntava poco, scuotendo la testa in segno di riprovazione dopo aver sbirciato la mia scommessa, un po’ alta per un giornalista part-time, come può confermare il comune amico Carlo Pellegatti, oggi popolare teleradiocronista di calcio, malatissimo di Milan.
Andava in scena al Derby in quegli anni Funari. Ma era ancora un signor nessuno, nonostante qualche fulminea apparizione in televisione. Infatti, mi diceva, non poteva permettersi di buttar via i quattrini con i cavalli, lui che col cabaret riusciva a stento a mantenersi, lontano dalla sua Roma. Chi bazzica gli ippodromi sa bene che tra una corsa e l’altra passa più o meno una mezz’oretta: l’ideale per ascoltare i mirabolanti racconti del sor Gianfranco, un giro del mondo tra femmine bellissime e avventurieri dalla faccia di bronzo. Conditi certo con qualche sensazionale balla, ma che fa, era così immaginifico, così bravo a far roteare le parole, che noi ragazzi stavamo ad ascoltarlo affascinati. Fino a quando lo starter chiamava i cavalli alla partenza. Allora ci fosse stato anche d’Annunzio redivivo, la platea si sarebbe dissolta con l’identica velocità.
Il massimo era quando ci spiegava il sistema infallibile per vincere alla roulette, messo a punto dopo la lunga militanza tra i croupier di Hong Kong. Però appena gli domandavamo perché non l’avesse sfruttato lui stesso, diventava improvvisamente evasivo. C’era anche il metodo per aver fortuna con le donne, quello per trovare casa a buon mercato, per imbucarsi alle feste, e via favoleggiando. Per noi il cabaret di Funari, riservato a pochissimi fortunati, si svolgeva soltanto a San Siro, gratis; al Derby non siamo mai andati a vederlo nei due o tre anni di assidua frequentazione. Peccato, il tempo volò via e, concluso l’impegno di Milano, Gianfranco se ne tornò definitivamente a Roma.
Lo rividi al vecchio cinema Monte Bianco di Courmayeur poco prima del Natale del ’79. Sto tornando in tv, mi confidò strizzandomi l’occhio, un programma completamente nuovo, sarà una bomba. Bum, dissi tra me e me, sarà il solito mortaretto.

Invece nella sua testa stava nascendo Torti in faccia, ovvero il litigio tra categorie, roba da far impallidire per intensità di decibel Il processo di Biscardi. Un genio, nel suo genere, l’ho capito tardi. Altrimenti gli avrei chiesto almeno un autografo, là lungo lo steccato di San Siro.

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