Non è ancora l'alba, nella luce livida della città notturna l'anziano senzatetto poggia i gomiti sul marciapiede, si libera dei due cartoni che lo proteggono, si alza a fatica, barcolla, sembra dover ripiombare a terra.
Poi muove i primi passi, si aggiusta i pantaloni troppo larghi intorno alla vita con entrambe le mani. Si dirige verso un angolo dove sa che a quell'ora può svuotare la vescica, senza che nessuno trovi a ridire. Cammina a passi incerti, pesanti: un torcicollo che dura da settimane lo costringe a guardare fisso in avanti, e le spalle e le gambe sono tutte indolenzite.
Il suo rifugio per dormire è nel pieno centro della città dove hanno casa i ricchi, tra bei palazzi, vetrine di negozi, ingressi di banche e chiese in cima a grandi scalinate. Gli occhiali gli si sono spezzati la volta che è dovuto sfuggire all'aggressione di quattro bastardi, e non ha più trovato il modo di procurarsene altri. Tutto gli appare dietro un vago velo di nebbia.
Ma quella specie di palla di stracci la nota. Subito.
È ai piedi della porta di un palazzo in vetro e acciaio, tanto alto che lui non può neppure, con il collo dolorante, vedere quanti piani ha. Si avvicina. È un istinto, un riflesso maturato nella sua vita sulla strada. Qualunque cosa si trovi per strada può servire, vale sempre la pena di prenderla.
Così si avvicina, ma non riesce a capire di cosa si tratta. Alla sua vista annebbiata è ancora una palla di stracci, un sacchetto della spesa ben aggomitolato, un melone marcito: ha una forma tonda, ed è inspiegabilmente lì, fuori dal portone di cristallo, l'ingresso principale del palazzo, alla base, posato sul marciapiede.
Il senzatetto fa ancora due passi in avanti e si piega: non riesce ancora a capire. Si inginocchia, allora. Strizza gli occhi. Il cielo è ancora nero, ma da così vicino non può più aver dubbi.
Capisce e urla ma tappandosi la bocca con entrambe le mani, una tenuta sull'altra. Un fiotto di orina gli cola giù per le gambe. Chi vive sulla strada ne vede tante, ma una cosa come quella no, lui non l'ha mai vista e mai l'avrebbe voluta vedere.
È una testa.
«Che Dio mi protegga, e la Madonna e tutti i santi del Paradiso... sant'Agata, sant'Alfio, proteggetemi» mormora tra sé, dopo che l'urlo gli si strozza in gola.
Una testa mozzata dal corpo e lasciata lì come quella di un bue o di un maiale nella bottega di un macellaio.
Una testa umana, non ci sono dubbi, anche se poco di umano resta in quei lineamenti, in quegli occhi semichiusi, in quelle orecchie spente, in quella pelle ormai grigia come la cenere. Dal collo non cola sangue. Il taglio deve essere stato netto, dovuto più a una falce che a un coltello.
Il senzatetto non distingue se è appartenuta a un maschio o a una femmina.
È una testa, e basta. Di un essere umano giovane, questo si capisce. I capelli sono scuri, e sul volto, anche se ormai ha quel colore fuligginoso, non ci sono rughe.
Quei capelli poi.
È l'ultima cosa che il senzatetto nota, prima di rialzarsi a fatica e fuggire, mentre continua a invocare tutti i suoi santi e a lasciare larghe macchie di piscio dietro ai passi.
Quei capelli sono scuri e corti, di un colore incerto tra il marrone e il nero, ma di una strana lucentezza come se fossero unti, divisi in tanti piccoli ciuffi filiformi che si alzano, si attorcigliano e si intersecano l'uno con l'altro.
Sembra che, posato su questa testa, ci sia un verminaio. Un nido di piccoli serpenti.
***
Sulla via del ritorno le due ragazze si fermarono a bere in un bar. Erano le uniche a occupare un tavolino sulla terrazza. Il sole scendeva con la giusta dolcezza degli equinozi e le ragazze si strinsero nei loro giubbotti imbottiti: Med ne aveva uno celeste, Esmeralda uno rosa, della stessa marca.
Ordinarono: un caffè per Med, una vodka per Esmeralda. Il giovane cameriere si inchinò quasi davanti a loro e le guardò con una insistenza compiaciuta. Le due ragazze non la notarono neppure.
Dalla borsa, Med estrasse una copia dell'Odissea, un tascabile con una bella, veloce traduzione in prosa, e la mise sul ripiano del tavolino. Piuttosto che leggere le edizioni piene di note consigliate dal professore, le ragazze preferivano quel tascabile, e quella traduzione dove la storia di Ulisse scorreva come in un romanzo di mare, d'avventura e d'amore.
Med lesse quella parte in cui Nausicaa ricorda alle ancelle che è Zeus a mandare esuli e stranieri tra noi, e che è nostro dovere accoglierli.
«Già» commentò poi «è Dio che ha mandato Abdelnur tra noi, ma sono i supermercati che lo rovinano e lo scacciano».
«Il tuo bel fornitore di frutta e verdura...»
«Te lo ricordi? Ti ci ho portato una volta».
«E io sono stata quasi gelosa... che tu fossi più amica di lui che di me».
«Non riesce più a tirare avanti con il suo negozietto, è strozzato dal nuovo supermercato, che è stato aperto a due passi di distanza».
«Il signore che vorrebbe fidanzarsi con me credo che si occupi proprio di quello, che sia tra le altre cose padrone di una catena di supermercati...»
«Bisognerà cantargliele, allora!»
«Stiamone lontano, sinché è possibile».
«Ti dicevo di Nausicaa, per me è il personaggio femminile più incantevole dell'Odissea».
«A me piace anche Calipso, e ti dirò che il potere di Circe di trasformare gli uomini in maiali non mi dispiace, anche se alla fin fine gli uomini maiali lo sono già, senza magie».
«E poi c'è Penelope, che tesse, disfa e aspetta. Guarda quante donne nell'Odissea, e che rilievo hanno, sono loro che rendono viva la storia di Ulisse, gli danno fascino. Nell'Iliade, senza donne, lui era ben lontano da averne. Sono loro che ne fanno l'eroe più amato. Le eroine dell'Iliade, schiave o principesse pensaci un po' hanno risalto soltanto grazie al loro uomo, invece quelle dell'Odissea sono indipendenti, tanto indipendenti che è come se la scrivessero loro. E forse è stata scritta proprio da un Omero donna, lo sapevi?»
«No, ma sarebbe magnifico».
«Io l'ho letto da qualche parte».
«E l'Omero donna chi sarebbe?»
«Qualcuno dice una principessa siciliana... una come te, insomma...»
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