La vita in affitto dell’architetto dei vip

Un libretto sul «privato» del Palladio è un gustoso antipasto alle celebrazioni per i 500 anni dalla nascita. I traslochi, le finanze non proprio floride, la protezione di Trissino, i guai del figlio Leonida: un genio alle prese con gioie e dolori comuni

La vita in affitto dell’architetto dei vip

Ci prepareremo dunque a celebrare debitamente, da qui a novembre, tra convegni, pellegrinaggi e visite itineranti, il quinto centenario della nascita di Andrea Palladio, e sarà occasione di leggere o rileggere alcuni almeno tra i molti libri che lo riguardano, a partire dal piccolo e prezioso Palladio di James S. Ackerman, ora ristampato nella Piccola Biblioteca Einaudi, e che resta uno dei punti di riferimento per tutti i cultori del grande architetto; o il ponderoso Andrea Palladio di Lionello Puppi e Donata Battilotti, reso più accessibile da Electa con un’edizione in brossura; oppure compiere proficue escursioni per così dire trasversali e comparative, consultando opere come l’inventario de Le ville venete di Giuseppe Mazzotti, della editrice Canova, suggerito dallo stesso Ackerman; o immergersi in quello studio magistrale che è Palladio e il palladianesimo di Rudolf Wittkower, per vedere le riverberazioni e gli influssi duraturi che il canone palladiano ebbe nel mondo inglese; o, infine, per ricostruire climi socio-culturali e criteri architettonici e urbanistici, riaprire con profitto Venezia e il Rinascimento di Manfredo Tafuri, e Rialto, le fabbriche e il ponte, di Donatella Calabi e Paolo Morachiello, entrambi di Einaudi.

PADOVA, NON VICENZA
Ma il minuscolo libro di cui si vuol parlare qui, pubblicato in questi giorni da Marsilio, Palladio privato di Guido Beltramini (pagg. 106, euro 9), apre una finestra inusitata sulla vita dell’architetto più noto degli ultimi cinque secoli. Certo, esistevano, fra i mille testi su ogni aspetto della vita e dell’opera, anche studi che comprendevano o s’incentravano sulla sfera privata di Palladio: due nomi fra tutti, quello di Antonio Magrini fra i più vecchi e di Giangiorgio Zorzi tra i «moderni». Ma il gusto e la finezza con cui Beltramini compendia e ricostruisce tutto ciò che finora si sa del Palladio privato sono davvero notevoli, tanto da rendere la lettura di questo libro breve, ma dall’alto peso specifico, un piacere non scaglionabile.
Si va per indizi, lettere, deposizioni giuridiche, committenze, testimonianze dirette e indirette, come sulla secolare questione se Palladio fosse di Padova o di Vicenza, finché nel 1948 non fu trovato un documento dirimente. Nel 1563, nell’Ufficio del Porco, così chiamato per il maiale dipinto sopra lo scranno del giudice del Palazzo di Padova, un vecchio barcaiolo fece questa deposizione: «Io cognobi il padre di messer Andrea Palladio fino a quel tempo che non era maridato, et mi aricordo quando el se maridò, chel stazeva qui in Padova in Torezelle, et era monaro, et haveva nome Pietro dalla gondolla...». La circostanza era un processo in cui Palladio doveva certificare la propria origine per poter iscrivere il figlio Silla a un collegio aperto a studenti poveri purché padovani.
Ebbene, la faccenda sembra straordinaria, se si pensa che a quella data Palladio aveva 55 anni, era già autore di Villa Cornaro a Piombino Dese, della Malcontenta presso Mira e di Villa Barbaro a Maser, ma sembrerà forse meno straordinaria alla luce del fatto che Palladio, lungi dall’essere povero, non guadagnò mai molto rispetto ai suoi colleghi, che nelle molte case in cui andò ad abitare era sempre in affitto e che, soprattutto, spendeva quel che guadagnava.

TALENTO E SUCCESSO
Riguardo i cambi di casa, il piccolo Andrea, nato nel 1508, doveva essere avvezzo, visto che il padre, mugnaio e piccolo imprenditore, spostò residenza in quattro o cinque contrade diverse nel giro di una decina d’anni. L’importante era che ci fosse l’acqua. Erano anni di fervente ricostruzione. Dopo l’assedio e le cannonate dell’esercito imperiale e degli alleati dei tedeschi, Padova, che era «quasi tutta fabrichata di legno», diventò «tutta di muro», e chissà se è stato vedendo questa grande attività che Andrea maturò la vocazione edilizia. Ma certo andò a bottega da Bartolomeo Cavazza, lapicida, termine che, a partire dal tardo Medioevo, non aveva più il senso classico dell’incisore di figure e scritte su marmo, ma dell’artigiano o artista che faceva scultura decorativa e architettonica.
Poi, nel 1523, lasciato improvvisamente Cavazza, Andrea si trasferì a Vicenza ed entrò nella bottega di Girolamo Pittoni e Giovanni da Porlezza, il primo scultore, il secondo costruttore. I quattordici anni passati con loro, prima come apprendista poi come assistente, furono forse i più importanti della sua vita, quelli che trasformarono le velleità in ambizioni e il talento in successo, un successo che raggiunse il suo picco alcuni anni più tardi quando, nel 1546, egli si giocò l’occasione della vita presentando il progetto del palazzo della Ragione.
Che stagione straordinaria furono quei primi decenni del Cinquecento, quale concentrazione di menti e di artisti, tutto un mondo che si rinnovava, con contatti e scambi che toccavano anche la periferica Vicenza. Jacopo Sansovino, che da poco aveva cominciato la Marciana a Venezia, nel ’38 fu per breve tempo a Vicenza per la ricostruzione della tribuna della Cattedrale, ed è probabile che in quell’occasione Andrea l’abbia conosciuto, come si può esser certi che abbia frequentato Sebastiano Serlio quando venne nel ’39, mentre si pubblicava a Venezia il suo Trattato di Architettura e, da Fontainebleau, Francesco I si accingeva a chiamarlo come suo architetto capo; e, nel ’41 Andrea, ora non più «Andrea di Pietro della Gondola» ma «Andrea Palladio», avrà certo incontrato l’anziano Michele Sanmicheli, ospite di Giovanni da Porlezza; e, nel ’42, è probabile che Palladio abbia accompagnato Valerio Valle a prendere Giulio Romano a Mantova per portarlo a Vicenza, dove si tratterrà per qualche settimana.

OMAGGIO A PALLADE ATENA
Tra tutti questi mentori e maestri, la figura chiave, sul piano sociale e culturale, pare quella del conte Giangiorgio Trissino, che conosceva tutti, era celebre per l’alta dottrina umanistica, autore di opere teatrali e poetiche, interessato alle arti e all’architettura, e che, fattosi costruire da Andrea la villa di Cricoli con i due pesanti torrazzi, uno per parte, così ancora poco palladiani (1535-37), lo prese a benvolere, lo pose sotto la sua ala, lo battezzò Palladio per richiamare la sapienza di Pallade Atena, e negli anni Quaranta, per due volte, se lo portò per soggiorni a Roma, dove Andrea poté dedicarsi alle sue misurazioni meticolose delle antichità classiche.
Intanto Andrea s’era sposato con Allegradonna, figlia di un falegname, e la nobildonna presso la quale la ragazza lavorava e risiedeva provvide alla dote: «Un leto bon, quasi nuovo... una perponta nova, azura fodrà verde...», per un valore totale di lire 177, e dal matrimonio nacquero Leonida, Marcantonio, Orazio, Zenobia e Silla, nomi che indicano bene a quale mondo andasse la fantasia del padre. La «muger del Paladio» dev’essere stata un tesoro, badava molto alla casa e ai figli, durante la costruzione della Basilica Palladiana, andava a incassare regolarmente lo stipendio del marito assente, sollecitava anticipi per far quadrare un bilancio domestico mai florido. Ad angustiare Allegradonna e Andrea sarà soprattutto il primogenito Leonida, reo confesso di aver pugnalato a morte Alessandro Camera. Mentre si banchettava in casa di questi, sua moglie mostrò l’intenzione di «tripudiare cum dicto Leonida», il marito ebbe una reazione violenta contro di lui, Leonida si difese uccidendo, fu assolto, e qualche dubbio rimase sulla imparzialità del giudizio.
Ormai Palladio era molto impegnato a Venezia, e Allegradonna lo raggiunse. I figli erano già grandi, Zenobia ben sposata, Marcantonio era risultato un uomo concreto nel seguire le questioni amministrative di famiglia, e Orazio s’era dottorato in legge a Padova, e però sospettato purtroppo dal Sant’Uffizio di aver commercio con fuorusciti luterani. Palladio lavorava alla chiesa di S. Giorgio Maggiore, alcuni anni dopo era alle prese col Redentore, da tempo, senza essere ufficialmente inquadrato nei ranghi delle magistrature veneziane, era l’architetto responsabile dei principali interventi di Stato, e il Vasari aveva consacrato la sua figura nelle Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti, e verso la fine della vita aveva creato quel gioiello del Teatro Olimpico di Vicenza, terminato da uno Scamozzi che continuerà a combattere contro l’ingombrante ombra del maestro.

MANI D’ORO (E BUCATE)
Forse perché non era riuscito, o non voleva fare, l’architetto-imprenditore che segue i lavori dal progetto alla realizzazione con compenso proporzionale, forse perché, fortunatamente per noi e non per le sue tasche, s’impegnò in una variegata produzione editoriale, importante solo per i Quattro libri dell’Architettura, concepiti come pratico e tecnico strumento di comunicazione, dove erano depositati i suoi principi, Palladio, che non divenne mai ricco, visse da ricco ed ebbe accesso alla tavola dei potenti.

E forse aveva ragione il pittore suo amico Giambattista Maganza il quale, dopo la morte di Palladio nel 1580, nelle sue Rime ruzantesche mise in bocca a Magagnò questa battuta: «Il puover barba Andrea, zò che’l guagnava, tutto el ghe spendea».

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