Walter, leader condannato a farsi mangiare il partito

In Abruzzo Di Pietro si è mangiato mezzo Pd. Se si votasse in tutta Italia il pasto sarebbe completo. Metà del Pd è in subbuglio. Dalemiani e mariniani vorrebbero denunciare l’alleanza con l’ex Pm. I prodiani vogliono rinsaldarla. Seraficamente il gran cerimoniere di Veltroni, Goffredo Bettini, dichiara: «Non abbiamo nulla da rompere perché non c’è nessun matrimonio con Di Pietro». Paradossalmente ha ragione lui. Il tema del Pd non è il dipietrismo «esterno», ma il dipietrismo «interno».
Quando nacque il Pd Francesco Rutelli, Piero Fassino, Franco Marini e Massimo D’Alema pensarono a un difficile sposalizio tra famiglie rivali ma costrette dall’antiberlusconismo a stare assieme. Prodi guardava ad una coppia ancora più aperta, con un giro di parentele allargata a tutte le sinistre possibili e impresentabili. Gli sposi convolarono a giuste nozze ma non consumarono. Nessuno esercitò lo «jus primae noctis» e fu chiamato Veltroni a risolvere il problema. Veltroni rifiutò il primitivo contratto di nozze e propose un nuovo matrimonio con Di Pietro. La storia del veltronismo nasce qui. Ma non fu un matrimonio vero. Ha ragione Bettini. La cerimonia che imparentava Veltroni e Di Pietro serviva per la facciata ma nascondeva al mondo gli amanti di sempre, l'ex comunismo e il giustizialismo.
C’è un’area della sinistra che si è fatta traghettare dal comunismo al nuovismo pensando di portare in salvo la dote ideologica più forte, la diversità antropologica. Dopo aver rinunciato al primato ideale, alla superiorità del socialismo rispetto al capitalismo, ha trovato la ragione della propria esistenza nell’«alterità». Vivere in questo mondo, ma non essere di questo mondo, per citare San Paolo. L’«altro mondo» era l’«altra America», l’«altro cinema», l’«altra tv», l’«altro consumo». In Italia l’altro è l’uomo etico, benestante, affannato dal mecenatismo e dalla beneficenza ma ben introdotto nel mondo che conta, mediaticamente affermato, forte negli apparati di controllo della legalità.
Veltroni non è più comunista perché è «altrista» e l’«altrismo» ha bisogno del nemico, ha bisogno di indirizzare la ripulsa morale verso qualcuno, ha bisogno di mostri.
Il giustizialismo veltroniano è la versione soft che raccoglie tutti i giustizialismi, da quelli della sinistra radicale che si spaventa della globalizzazione, a quello della sinistra intellettuale che teme la ruvidezza della nuova Italia, a quello del giustizialismo «nature» che trova in Di Pietro il mentore più efficace. Da oltre un anno Veltroni cerca di tenere assieme le voci di dentro del giustizialismo beneducato con il giustizialismo rozzo e chiassoso di Di Pietro. In alcuni momenti è tentato di lasciare andare Di Pietro al proprio destino. Più spesso lo affianca e lo sospinge a fargli da battistrada quando è Di Pietro a dire con brutale franchezza la verità sulle satrapie del Pd, da Bassolino a D’Alema. Il patto fra i due si cementa con la formazione delle liste quando Veltroni presta due deputati, Touadì e Giulietti, a Di Pietro e Di Pietro li elegge perché sa che Walter non può farlo. Procedono in tandem, minacciandosi, lasciandosi per qualche minuto e rappacificandosi. Veltroni ha bisogno di Di Pietro per la guerra interna al Pd. Saranno terribili i prossimi mesi. La magistratura sembra aver perso ogni timore reverenziale verso la sinistra e procederà come un rullo compressore. Veltroni pensa di avere in pugno il suo principale antagonista, D’Alema, a capo di una classe dirigente border line. Il cannoneggiamento che la corazzata Di Pietro farà sullo stato maggiore del Pd serve a Veltroni che vuole annichilire il proprio quartier generale. Ora Di Pietro non è più solo.

Attorno a lui si comincia a delineare la presenza di suggeritori di sinistra che lo spingono ad affiancare le lotte sindacali, a cavalcare la protesta sociale. È un mondo intellettual-politico-mediatico che fa del dipietrismo la sua leva per sollevare il mondo. Divorziare da Di Pietro non è possibile, più che un divorzio sarebbe l’amputazione di una parte di sé.

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