Federico Rampini (classe 1956) è giornalista e saggista, editorialista del Corriere della Sera da New York. Ha scritto moltissimi saggi, ora nelle librerie è appena arrivato il suo La speranza africana (Mondadori, pagg. 348, euro 20) che racconta la complessità di un continente che non può essere considerato solo come una bomba migratoria o terreno per avventure neo coloniali. Rampini è noto al grande pubblico soprattutto per la capacità di raccontare il vorticoso sviluppo della Cina e la sua ascesa internazionale: lo abbiamo intervistato per capire dove va, e da dove viene, la politica imperiale di Xi Jinping.
Rampini sono in molti a sostenere che sotto la politica cinese quello che potremmo chiamare «sogno di ritorno all'impero» abbia un gran peso anche se non viene nominato, è così?
«Xi Jinping usa altri termini, nei suoi discorsi parla di ringiovanimento o rinascita della Cina. Inoltre promette al suo popolo di cancellare ogni traccia del secolo delle umiliazioni: così viene definito il periodo che si apre a metà dell'Ottocento con le Guerre dell'oppio vinte dagli inglesi contro la dinastia Qing e si estende fino all'invasione giapponese e alla Seconda guerra mondiale. Ma il senso è proprio quello: Xi vuole passare alla storia come il sovrano rosso che ha restituito alla Cina uno status imperiale. Non userebbe mai la parola impero, perché un ingrediente della sua propaganda internazionale è la tesi secondo cui la Cina a differenza dell'Occidente non ha il Dna dell'imperialismo, non ha mai conquistato colonie. Falso: la Repubblica popolare è tuttora un impero coloniale che occupa territori come il Tibet, lo Xinjiang, la Mongolia interna».
Esiste un mito dell'efficienza dell'amministrazione imperiale, del giusto governo di stampo confuciano?
«È un mito antico al quale abbiamo aderito anche noi occidentali. Ai tempi dell'Illuminismo uno studioso dei sistemi politici come Montesquieu ammirava il regime cinese e lo considerava molto più moderno dell'Ancien Régime francese. L'Impero celeste aveva inventato la meritocrazia nell'amministrazione pubblica, con i concorsi per selezionare i mandarini, cioè l'élite dei funzionari. Il regime comunista di Xi è un impasto unico nella storia, vi convergono l'influenza confuciana - meritocrazia, rispetto delle gerarchie, principio di autorità - e una forte dose di tecnocrazia. Questi due ingredienti durante i predecessori di Xi sembravano dar vita a una sorta di governo dei competenti. Invece con lui il principio guida è tornato ad essere il primato assoluto del partito comunista».
Ad un certo punto della sua complessa storia la Cina poteva diventare una potenza coloniale globale. Penso all'enorme flotta dell'ammiraglio Zeng He (1371-1434). Non è accaduto e la Cina si è chiusa. Ora, anche nella sua politica verso l'Africa, la Cina ha una vocazione da potenza in espansione?
«La vicenda dell'ammiraglio Zheng He è affascinante anche per la sua personalità: eunuco e musulmano. La ragione per cui le sue ambizioni non ebbero un seguito è nota, la Cina temeva invasioni terrestri dai popoli delle steppe, come era già accaduto con i mongoli e in seguito i mancesi; pensava che la forza navale fosse inutile. Grave errore che due secoli dopo portò alla sconfitta contro l'Inghilterra, una piccola isola che però aveva tecnologie navali superiori. Oggi la Cina esprime un espansionismo in varie fasi: prima commerciale, poi finanziario, infine militare. Vale in Asia, Africa, America latina. Sull'Africa però noi siamo troppo frettolosi nel parlare di colonialismo, per il vecchio vizio di considerare gli africani come le eterne vittime, prede altrui. La Cina in Africa viene invitata da classi dirigenti locali che sanno quel che fanno. Esiste un protagonismo delle élite africane, come spiego nel mio libro, anche quando si mettono in vendita al miglior offerente. Inoltre la speranza africana è affidata anche alla possibilità di ripercorrere traiettorie di sviluppo asiatiche. All'epoca della sua indipendenza dal colonialismo inglese Singapore era più povera della maggior parte dei Paesi africani».
In alcuni contesti più vicini al confine cinese - facile pensare a Taiwan la Cina sembra non essere troppo refrattaria all'uso dell'opzione militare: è così?
«Non solo a Taiwan ma anche con India, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, la Cina mostra continuamente i suoi muscoli militari. Di recente ha aggredito alcune navi delle Filippine.
Quella è l'area che considera il suo cortile di casa, il primo cerchio della sua sfera d'influenza, dove assistiamo già da tempo a un uso della forza sempre più minaccioso. È un avvertimento per chi s'illude che in altre parti del mondo Pechino possa accontentarsi di fare business».
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