"Non ci sono mai certezze e l'Italia rimane al palo"

Il rettore del Politecnico di Milano: "Un errore rimettere tutto in discussione. Siamo competitivi, ma alla politica non interessiamo"

"Non ci sono mai certezze e l'Italia rimane al palo"

Ferruccio Resta siede in maniche di camicia nel suo ufficio, nella palazzina Anni venti che ospita il quartier generale del Politecnico di Milano. Atrio e scalone sono da archeologia industriale, lui ha l'aria del manager più che dell'accademico e a 50 anni è il rettore della migliore università della Penisola. L'affermazione può suonare temeraria visto che nel settore ogni classifica è oggetto di furibonde discussioni, ma a sostenere il primato è il Qs World University Ranking, considerata la graduatoria più attendibile. In Italia la fabbrica lombarda di ingegneri e architetti lascia dietro di sé la Scuola superiore Sant'Anna di Pisa e la Scuola normale, sempre nella città toscana. A livello internazionale è sesta nel design, settima per ingegneria civile e meccanica, undicesima per architettura.

Resta, ovviamente ingegnere, ovviamente laureato al Politecnico, è stato nominato nel 2017 e il suo incarico scadrà nel 2022. «Se devo essere sincero al liceo non avevo una vocazione precisa. Mi sono sempre piaciuti il mare e la pesca: a mio padre una volta dissi che mi sarei dedicato a Oceanografia. Dalla reazione vidi che non era proprio entusiasta. Arrivato qui mi è subito piaciuto tutto, anche per questo mi sono laureato alla svelta». La sua specializzazione è la meccanica, negli anni ha tenuto corsi dai nomi incomprensibili ai più (sistemi meccatronici, azionamenti dei sistemi, modellistica, meccanica delle vibrazioni e così via). Poi ha assunto compiti sempre più organizzativi e gestionali. «In università abbiamo la fortuna di avere un interlocutore che ha sempre vent'anni e non invecchia mai, lo studente. È un bell'impegno ma anche un bel lavoro».

Però ultimamente i giornali l'hanno descritta un po' inquieto. All'inaugurazione dell'anno accademico ha parlato di «assenza delle istituzioni centrali».

«Guardi, io sono sempre ottimista, un po' per contratto, un po' perché lo devo a 44mila studenti che decidono di fare con noi un investimento difficile e impegnativo. Questi ragazzi fanno sacrifici e richiedono sacrifici. Mi sembra giusto domandare alle istituzioni di tenere d'occhio le loro esigenze. Lo dico anche perché abbiamo tutte le carte in regola per rispondere ai problemi che la tecnologia pone. Prenda per esempio l'intelligenza artificiale, destinata a sostituire tutti i lavori ripetitivi non solo fisici ma anche intellettuali. Nel Dna degli europei, ma soprattutto degli italiani, c'è la capacità di trovare soluzioni non codificate ai problemi. Per l'intelligenza artificiale è perfetto: siamo messi molto meglio noi di chi viene, che so, da una cultura come quella giapponese».

E allora l'arrabbiatura da dove viene?

«Mi arrabbio se non cogliamo le opportunità, se rimettiamo in discussione sempre tutto, se non scegliamo e ci facciamo imbrigliare dalla burocrazia».

È il ritratto dell'Italia e del settore pubblico.

«Ma no, non è giusto dire che la pubblica amministrazione sia sempre inefficiente. Qui i dipendenti sono 2.500 e questa io la considero un'amministrazione efficiente: riusciamo ad avviare un rimborso nel giro di un paio di giorni, a pagare i fornitori per tempo. Semplicemente rimango male quando si rinuncia a raggiungere questo tipo di obiettivi».

Quindi?

«Quindi non mi faccia lamentare. È un atteggiamento a cui sono allergico. Io, però, ne faccio una questione di scelte e non posso non confrontarmi con i nostri concorrenti a livello internazionale, come il Politecnico di Zurigo o l'università di Monaco di Baviera. Facciamo due conti: uno studente costa all'ateneo 10mila euro. Per metà questa somma è coperta dal fondo finanziario ordinario, il fondo statale di finanziamento per le università. Per un quarto provvedono le tasse, e quello che manca andiamo a cercarlo sul mercato. A Monaco di Baviera, c'è poco da fare, i soldi che arrivano sono cinque volte tanto. Poi, per carità, su queste cifre si possono fare tutti i ragionamenti che si vogliono: eliminare le tasse, alzarle, chiedere di più allo Stato. È appunto questione di scelte».

Che cosa bisognerebbe fare?

«Il Fondo finanziario ordinario tende a mettere tutti sullo stesso piano. Tutti uguali, con il rischio di togliere stimoli a qualcuno. Una strada alternativa sarebbe quella di applicare modelli differenti a realtà differenti. Un ateneo può essere strutturato per un'offerta più professionalizzante, un altro per essere competitivo a livello internazionale. Avere una politica universitaria è fondamentale per un Paese. Non si vuole fare? Benissimo. Allora bisogna individuare una serie di parametri chiari per tutti gli atenei, e poi valutare i risultati in base ai criteri fissati».

Il problema, appunto, è che voi tendete a confrontarvi con modelli non italiani...

«Il problema è che se vogliamo essere competitivi con Zurigo, Monaco piuttosto che con le università olandesi dobbiamo avere anche lo spazio finanziario per attirare docenti internazionali, muovendoci con logiche di mercato. E dobbiamo riuscire a fare fronte a problemi che spesso le regole sulla pubblica amministrazione non conoscono. Ci sono attrezzature specialistiche, che magari sono prodotte, faccio un esempio, solo in Giappone e che un'università come la nostra deve avere per salvaguardare la qualità didattica. Come posso avviare un bando pubblico come si trattasse di una fornitura di penne? Ci vuole la consapevolezza che l'università non è proprio un ramo della pubblica amministrazione come le altre».

E questa consapevolezza non c'è?

«Di sicuro l'università non è al centro dell'attenzione della politica. Parlo di questo governo e più o meno di tutti quelli che l'hanno preceduto. Le grandezze in gioco, i numeri, sono piccoli; grandi problemi che facciano da calamita per l'opinione pubblica non ce ne sono. Quindi non siamo all'ordine del giorno».

Anche l'insegnamento che date deve però cambiare: c'è che ha parlato di passaggio da ingegnere «nerd» a ingegnere creativo.

«Arricchire la formazione tecnico-scientifica con una parte di scienze umane è una necessità. Noi siamo fortunati perché abbiamo architettura, che ci apre naturalmente verso questo mondo. Oggi però stiamo lavorando molto su due filoni. Il primo è l'utilizzo di strumenti digitali che ci consentono di cambiare anche il modo di fare lezione, di verificare al momento se la classe segue, se coglie quello che si sta facendo. Il secondo è quello di aggiungere competenze non tradizionali. Le faccio un esempio: nel corso di Mobility engineering che abbiamo avviato c'è un corso di filosofia. Progettare l'auto senza conducente non è solo questione di algoritmi ma anche di chiarire i concetti alla base di questi ultimi».

Altra esigenza di cui tutti parlano è l'internazionalizzazione.

«Noi ci siamo già trasformati: il 10% dei nostri docenti arriva dall'estero; abbiamo seimila studenti stranieri, e le regole internazionali valgono anche per i concorsi».

Che cosa intende?

«Per tutti i concorsi dei professori di prima e seconda fascia la commissione di valutazione è formata da un professore italiano e da due stranieri. E ovviamente questa apertura internazionale contribuisce alla nostra reputazione. Nel triennio iniziale gli studenti sono quasi tutti italiani. Ma nei corsi magistrali e a livello di Master dove c'è più mobilità e più concorrenza gli stranieri aumentano e aumenta la necessità di essere competitivi».

I tribunali, però, hanno bocciato la vostra decisione di tenere corsi solo in inglese.

«È stata una polemica del tutto inutile. Stiamo parlando di materie fortemente specialistiche, con un linguaggio formalizzato e l'inglese come strumento fondamentale. Non avrei avuto la possibilità di attirare né professori né studenti da tutto il mondo se non con l'inglese».

Resta la decisione del Consiglio di Stato.

«È stata una telenovela. Si è pronunciato il Tar, il Consiglio di Stato, perfino la Corte costituzionale. Alla fine ci è stata data la possibilità di insegnare in inglese facendo accordi anche con altre università, purché non a pagamento, per affiancare corsi in italiano a quelli in lingua. Stiamo avviando il sistema che ci è stato chiesto. Però vuole sapere una cosa?»

Mi dica.

«I corsi in italiano non li seguirà nessuno. Anzi, le dico di più. I nostri corsi in inglese sono il migliore strumento per la promozione dell'italiano e della nostra cultura. Abbiamo seimila ragazzi che vengono qui da ogni dove per studiare. Tutti o quasi imparano la lingua, tutti si appassionano alle bellezze della Penisola, spesso più di noi. Poi tornano a casa e sono nostri tifosi».

I nuovi corsi di laurea hanno nomi quasi impronunciabili.

«C'è Mobility engineering, che parte dal fatto che sempre di più non si tratta di progettare un mezzo di trasporto quanto piuttosto l'intero sistema che c'è intorno. Poi Food engineering, sull'automazione nel settore alimentare. Con la Bocconi abbiamo messo a punto una laurea magistrale sul Cyber risk. Visto che non avevamo le necessarie conoscenze biologiche con la Statale abbiamo lanciato un corso per bio-informatici. Dal prossimo anno accademico insieme all'Humanitas metteremo a punto qualche cosa di completamente nuovo che laureerà una figura che non c'è mai stata, quella del medico-ingegnere».

Nasce il doppio titolo?

«Vedremo. Ma per capire di che cosa parliamo basta pensare all'evoluzione di alcune specializzazioni mediche, come la radiologia, in cui l'intelligenza artificiale è destinata a giocare un ruolo sempre più importante. Toccheremo l'intreccio sempre più complesso tra medicina e tecnologia».

Ormai però non insegnate e basta. C'è chi ha parlato di Politecnico Holding, un gruppo diversificato con un fatturato di 500milioni.

«Le missioni restano formazione e ricerca d'avanguardia. Però ci siamo posti anche il problema di scaricare a terra, di rendere fruibile quello che facciamo a livello economico. E abbiamo avviato un sistema di sostegno alla creazione di imprese. Abbiamo dato il nostro marchio a ricercatori e studenti, creato una struttura apposita, il Polihub, con un centinaio di mentor, di "facilitatori" che operano su questo terreno, affiancando le aziende. Oggi le start up che aiutiamo a crescere sono 120. E poi abbiamo fatto un passo ulteriore».

Cioè?

«Ci mancava la finanza. Nell'autunno scorso abbiamo presentato un fondo di venture capital, Poli360, con uno dei più noti operatori di settore e una dotazione di 60 milioni di euro. È il primo fondo universitario in Italia: abbiamo il sostegno di aziende come Brembo e Maire Tecnimont e siamo in parte finanziati dal fondo europeo Eif e dalla Cassa depositi e prestiti».

Poi ci sono i cinesi...

«Anche questo fa parte del discorso che stavo facendo. Se vogliamo aprire ai prodotti delle aziende che facciamo nascere prospettive davvero globali dobbiamo passare dalla Cina. Per questo abbiamo un accordo con la Tsinghua university, che è un po' il Mit cinese. Loro cercavano un centro di formazione post laurea per i loro manager in giro per l'Europa e l'hanno trovato da noi a Milano. Aggiungo che in questo momento il progetto è anche un altro».

Cioè?

«Stiamo cercando di creare una rete di università europee. Gli Stati Uniti per consolidare la loro posizione puntano sulle loro università top. Il Far East anche in questo campo ha grandi ambizioni.

E l'Europa deve ragionare in termini continentali perché ognuno di noi da solo non ha la necessaria massa critica per competere a livello globale. Stiamo lavorando con atenei come l'Eth di Zurigo, Delft o Aachen. Nel futuro gli studenti passeranno senza problemi da un'università all'altra: sei mesi in Germania, qui o in Olanda».

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