Nomine Ue, la Meloni valuta l'astensione su Ursula

Irritazione della premier per l’accordo su Von der Leyen, Costa e Kallas: servono garanzie sull’agenda strategica, basta forzature Ci sarebbe l’ok per vicepresidenza e portafoglio pesante a Fitto

Nomine Ue, la Meloni valuta l'astensione su Ursula
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Il puzzle è in via di composizione, seppure con una tensione sempre crescente. Ieri, infatti, a due giorni dal Consiglio europeo di domani e venerdì, i negoziatori delle tre grandi famiglie politiche europee - Popolari, Socialisti e Liberali - hanno fatto sapere di aver trovato l’accordo sui quattro nomi che guideranno i vertici delle istituzioni comunitarie. Ribadendo, di fatto, quello schema che la scorsa settimana a Bruxelles Giorgia Meloni aveva rimandato al mittente, perché «pre-confezionato» e «nato sui nomi e non sui temi». S&D e Renew, peraltro, sono tornati a sottolineare che la pre-condizione posta al Ppe è che non ci sia alcuna intesa formale con Ecr (e quindi con Fdi). Intesa che in realtà non vuole e non cerca neanche Fratelli d’Italia e che gioca su un gigantesco equivoco: una cosa è il voto one shot del Parlamento sul presidente della Commissione Ue, ben altra sono le alleanze durante la legislatura.

Il punto, però, è l’insistenza dei Socialisti (nella persona del tedesco Olaf Scholz) e dei Liberali (il francese Emmanuel Macron) a voler ribadire una conventio ad exludendum verso Meloni, che di Ecr è presidente.

Così, seppure la trattativa sia in fase avanzata, chi ieri ha avuto occasione di parlare con la premier non ha potuto fare a meno di cogliere un certo fastidio.

Ursula von der Leyen in verità ha aperto un canale permanente con Meloni, proprio per trattare il “prezzo” del sostegno italiano. Ed è molto probabile che le due si siano sentite anche ieri, dopo che in tarda mattinata il premier greco Kyriakos Mitsotakis - uno dei due negoziatori del Ppe - ha anticipato a Meloni l’intesa sui top jobs.

La presidente uscente della Commissione, infatti, sa bene che per essere riconfermata dovrà superare indenne il voto del Parlamento Ue, passaggio delicatissimo perché a scrutinio segreto e - per tradizione - con un alto numero di franchi tiratori (nel 2019 se ne ipotizzarono circa 80 e Von der Leyen la spuntò per nove voti). Insomma, i 24 europarlamentari di Fdi sono preziosi, così come gli altri (una quindicina) che la premier italiana potrebbe “arruolare” dentro Ecr.

Di qui, la necessità di Von der Leyen di negoziare direttamente con Roma, che chiede da tempo una vicepresidenza esecutiva della Commissione con un portafoglio pesante. Secondo Bloomberg, Meloni avrebbe incassato entrambe e, come è noto, in corsa per quella poltrona ci sarebbe solo il ministro Raffaele Fitto. Il punto, però, è il metodo, a partire dall’approccio muscolare di S&D e Renew, ben curioso - fanno notare fonti di governo - visto che Scholz e Macron sono i due grandi sconfitti di queste elezioni europee. Di qui il fastidio, con la premier che chiede garanzie non solo sul portafoglio italiano, ma anche sull’agenda strategica 2024-2029, primo punto all’ordine del giorno del Consiglio Ue. «Non ci sono solo le nomine, per noi è importante che dal vertice esca un messaggio chiaro su temi cruciali come competitività, difesa e migrazioni», dice non a caso Fitto. Per non parlare del green deal, tema caro a Meloni e su cui chiede rassicurazioni a Von der Leyen che - sempre in vista del delicato passaggio parlamentare stra trattando anche coni Verdi. Insomma, la premier italiana vuole «garanzie serie» che su alcuni temi ci sia un cambio di passo che sia in linea con le indicazioni arrivate dal voto.

Ed è per questo che, nonostante l’ottimo rapporto personale con Von der Leyen, alcuni dei big di Fdi che si occupano in prima battuta della pratica europea ieri non escludevano nessuno scenario. Prima del voto in Parlamento, infatti, Von der Leyen venerdì dovrà avere il via libera dei 27 capi di Stato e di governo seduti in Consiglio. Bastano 15 Paesi che rappresentino il 65% della popolazione, quindi l’ok è scontato.

Ma l’Italia potrebbe dare un segnale decidendo di astenersi. O, almeno, questo ipotizza qualcuno. Il voto in dissenso di un Paese fondatore sul nuovo presidente della Commissione non avrebbe conseguenze pratiche, ma comunque un peso politico enorme.

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