Addio all’attore per tutte le stagioni: «Mi sento a mio agio solo in scena»

Debuttò sul palco nel ’37 con Silvio D’Amico. Tra le ultime prove «L’amante inglese»

Adesso l’addio alle scene l’ha dato davvero. Aveva annunciato tante volte «mi ritiro» che nessuno gli credeva più. Probabilmente nemmeno lui, che si sentiva «attore nato» a proprio agio solo in scena. Aroldo Tieri se n’è andato in silenzio, lo stesso in cui era vissuto per ottantanove anni, a parte quelle clamorose sparate piene di «sono stanco» e «non ne posso più», che, fortunatamente, non hanno mai avuto seguito. Il teatro, il suo cruccio e la sua passione. Figlio di un commediografo di nome, Vincenzo Tieri, aveva fatto l’Accademia d’arte drammatica, come era la regola aurea di chi intendeva salire sul palcoscenico negli anni in cui la televisione non la conoscevano neppure in America.
Infatti non usava perifrasi nelle lamentazioni contro lo scempio del teatro, diventato negli ultimi tempi una succursale della tv, la peggiore: «Se mi chiamano al Teatro Tal dei Tali, e dopo due ore arriva una Valeria Marini, mi cacciano per lasciarle il posto». Poveretto, non si può dargli torto, da Silvio D’Amico al Bagaglino è un bel salto all’indietro. Diceva con il suo tono da finto burbero: «Una volta l’attore era una figura di prestigio: a Londra Laurence Olivier si inginocchiava per baciare la mano a Ruggero Ruggeri. Oggi l’attore deve morire per avere l’onore di due righe in cronaca, come è successo a Enrico Maria Salerno e a Gianni Agus». Il pubblico, che pure l’ha applaudito per innumerevoli stagioni all’Eliseo di Roma o al Manzoni di Milano, però ha amato Tieri per la sua lunga carriera cinematografica (oltre cento film) e televisiva (l’elegante tv in bianco e nero, nemmeno cugina di terzo grado di quella becera di oggi).
Molti lo ricordano come devota, ma non defilata, spalla di Totò, da Totò cerca casa (1946) a Totò cerca moglie (1950), da Totò terzo uomo (1951) a Totò, Peppino e le fanatiche (1958). Una galleria di personaggi disegnati con grande senso dell’ironia, come il marchesino Gastone di Totò sceicco (1950), disperato dopo la rottura con la soubrettina Lulù, che s’arruola nella legione straniera, obbligando il fedelissimo maggiordomo Antonio (Totò, ovviamente) a seguirlo nel deserto.
Il ruolo del protagonista gli era precluso da un fisico non propriamente atletico, nonostante qualche vezzo dongiovannesco: «Non voglio apparire presuntuoso se affermo che sono stato sempre corteggiato dalle donne, pur non essendo bellissimo». Ma poi è rimasto accanto alla stessa donna, Giuliana Lojodice, per quasi mezzo secolo. Dalle foto di repertorio appare sempre serioso, mentre aveva irresistibili lampi di goliardia. Uno per tutti: a Milano alla festa della Croce rossa un bacio appassionato, per finta, quasi inutile sottolinearlo, sulla bocca di un allibito Walter Chiari. Era il 1956, non scordiamolo. Quindi si adattava ai ruoli di comprimario, dove il suo talento emergeva comunque. Così è il trombonesco Saverio Fallopponi in Gli onorevoli (1963) dove impersona un intellettuale al quale il Pci ha affidato la strategia della campagna elettorale, così poco sensibile al richiamo della falce e martello da scappare a Washington anziché a Mosca. Una figurina tutta da ridere, come del resto quelle dei suoi avversari politici, in prima linea il monarchico Antonio La Trippa (l’immancabile Totò), oggi sovente riciclato nei tormentoni di Blob («Votantonio»).
Il comunista da operetta della modesta commediola di Sergio Corbucci era stato preceduto, due anni prima, da un comunista per così dire doc. Quando, in I sogni muoiono all’alba, l’unico film diretto da Montanelli, Tieri è l’inviato dell’Unità Antonio, colto da profonda crisi di coscienza nell’albergo di Budapest che ospita i giornalisti stranieri: è la notte tra il 3 e il 4 novembre 1956 e i carri armati sono alle porte.
Lunga è stata anche la stagione del Tieri televisivo. Dalla commedia del venerdì che andava in onda sul Programma Nazionale alle nove di sera, mica a mezzanotte come oggi, a uno dei più fortunati sceneggiati di sempre, Le avventure di Nicola Nickleby (1958), tratto da Dickens. Un attore così eclettico da potersi permettere anche la conduzione della trasmissione più popolare di quei tempi, alla pari con Sanremo e Lascia o raddoppia?, ovvero Canzonissima.

Era l’edizione 1960-61 e il trio formato da Alberto Lionello, Lauretta Masiero e appunto Tieri non doveva far rimpiangere quello dell’anno prima, a detta di tutti il migliore: Delia Scala, Manfredi e Panelli. Un compito impossibile. Eppure ci riuscirono.

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