Gli adoratori della povertà che ci mandano in malora

Dal Papa ai teorici della decrescita, è tutto un elogio del basso profilo. Che impone di piegare la testa

Gli adoratori della povertà che ci mandano in malora

Il pauperismo, che già qualche danno fece nel Quattrocento sotto forma di Savonarola e nel Novecento sotto forma di comunismo, sembra aver preso pieno possesso della scena religiosa, con Papa Francesco, e della scena politica, con i Cinque Stelle. Poco male se il deprimente ismo fosse rimasto relegato nell'ambito dei preti senza tonaca e degli attivisti senza cravatta, della Caritas e degli indignati, delle onlus e delle comunarie, ma complice la crisi infinita certe prediche ormai rimbombano ovunque, anche nel mondo dell'economia, dove eminenti personalità propugnano l'abolizione del contante, che è un modo per farci rimanere davanti alla Agenzia delle Entrate come San Francesco davanti al vescovo di Assisi, ossia perfettamente nudi, e nel mondo della cultura, dove ci si è talmente abituati a fare di necessità virtù che si è persa completamente la capacità di pensare e realizzare in grande, o anche in medio.

Nulla di ciò che ha reso illustre la civiltà italiana è stato fatto avendo come obiettivo il risparmio. «Senza denari non si canta messa» è un vecchio detto ancora molto esplicativo: senza denari, moltissimi denari, non esisterebbero il colonnato del Bernini, la Cappella Sistina, la torre di Pisa, la cupola del Brunelleschi, il duomo di Milano... Se nel corso dei secoli la Chiesa avesse pensato esclusivamente alle mense dei poveri l'Italia sarebbe nota nel mondo solo per la curiosa forma a stivale della penisola. Ormai Michelangelo l'ha sfangata, quello che è fatto è fatto, il pauperismo odierno non può più stroncarlo mentre sono gli artisti italiani viventi a patire la miniaturizzazione imposta dalla penuria innanzitutto ideologica. Conosco pittrici superlative, le migliori che il Belpaese annoveri, costrette dalle circostanze a dipingere tele di 30x30 centimetri, in casi estremi anche 20x20. Poi è chiaro che di fronte ai pannelli del giapponese Murakami, roba da 9 metri, ci fanno la figura delle piccole fiammiferaie. Vendendo quadri-francobollo se va bene riempiranno il frigorifero ma non svilupperanno mai il fatturato necessario a pagare cataloghi, monografie, mostre prestigiose. Non cresceranno, resteranno confinate a vita nelle loro camerette, nelle loro soffitte, e se sono di sinistra (quasi sempre lo sono) non potranno nemmeno maledire le tasse perché le tasse secondo la sinistra sono bellissime (lo affermò un ministro del secondo governo Prodi) anche se il braccio armato del pauperismo contemporaneo è proprio il fisco. Ci sono persone che tremano all'idea di comprare un acquerello da 800 euri: e se la Finanza lo venisse a sapere?

Il pauperismo rimpicciolisce i quadri e atrofizza i romanzi, oggi un libro come Fratelli d'Italia di Arbasino, tutta una scorribanda di amici con tempo da perdere e soldi da spendere a bordo di una MG spider, è semplicemente inconcepibile. Un nuovo D'Annunzio per avere successo dovrebbe scrivere «Il dispiacere» ed evitare accuratamente foto con cavalli, levrieri, aeroplani, ville. Eppure senza opulenza, senza privilegi, non sarebbe esistito Leopardi e non sarebbe esistito Manzoni, la lingua italiana come la conosciamo oggi. Il conte Giacomo si lamentava del padre tiranno ma se fosse nato in una famiglia di simpatici villici la biblioteca di Monaldo (ventimila volumi, e i libri allora costavano tantissimo) non l'avrebbe vista nemmeno col binocolo. Il conte Alessandro se non fosse stato un ricco possidente non avrebbe potuto dedicare vent'anni ai Promessi sposi, compresa la linguisticamente indispensabile trasferta a Firenze con famiglia numerosa al seguito. Le attuali ristrettezze, prima mentali che finanziarie, spingono invece a evitare le grandi opere per dedicarsi a libri piccoli nell'ambizione se non nella foliazione, incentrati su ombelicali problemini di cuore o dieta. È dunque il momento di Chiara Gamberale e Fausto Brizzi. «Con mia moglie l'ultima litigata è avvenuta perché ha trovato dello stracchino nel frigo» racconta colui che ha sposato una vegana ed è meglio lasciarlo perdere se si vuole imparare qualcosa su ostriche o beccacce o aragoste: per quelle bisogna leggersi rispettivamente Casanova, Malaparte, Parise, letterati del tempo lussuosista che fu.In anni moralistici (il pauperismo è innanzitutto moralismo) il lusso è la vera controcultura, oltre che una speranza per la ripresa dell'occupazione come sa chiunque abbia anche solo sfogliato Mandeville e gli economisti della scuola austriaca. Senza denari non si canta e neppure si suona. Penso ai tanti organi magnifici e silenziosi, non più restaurati perché i parroci anziché dare lavoro all'organaro preferiscono assistere il maomettano appena sbarcato, penso ai musicisti disoccupati perché la musica ormai si fa con i computer e non solo per scelta estetica. Dietro il fenomeno delle band unipersonali, Luci della centrale elettrica, I Cani, eccetera, c'è anche il risparmio su strumenti e strumentisti siccome per dischi e concerti nessuno vuole pagare e però poi nessuno si lamenti se il suono non è quello dei Pink Floyd che avevano batterie lunghe un chilometro, cori nutriti e all'occorrenza intere orchestre, insomma tutto l'apparente superfluo senza il quale The Dark Side of the Moon non si dà.Scrive Stefano Zecchi che il lusso viene «condannato per quel suo desiderio di elevazione e distinzione dalla massa».

Il pauperista che condanna il lusso indirettamente condanna qualunque forma d'arte rifiuti di abbassarsi, di appiattirsi: fosse per lui esisterebbero solo i fotografi di «Scatta per Emergency», i registi di film sui profughi e le iniziative dell'assessorato alla cultura del Comune grillino di Parma tipo l'incontro

«Mozzarella delle terre di Don Peppe Diana. Un esempio di economia della legalità che favorisce l'inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati». Così i veri soggetti svantaggiati, col pauperismo al potere, sono i veri artisti.

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