Affresco straniato di un’umanità «claustrofobica»

Paravidino porta in scena «Il compleanno» di Harold Pinter

Una pensione modesta e squallida in una località della costa inglese. Due anziani proprietari. Un ospite fisso - l’unico - da un anno. L’arrivo imprevisto di due sicari che, mascherati di mistero e crudeltà, cambiano le carte in tavola architettando un festino/rapimento dai contorni inquietanti. La secca prepotenza dell’extra-quotidiano si fa così tortura, esasperazione, senso di morte e ambiguità. Il compleanno di Harold Pinter, andata in scena la prima volta nel ’58, è uno di quei testi che va sorseggiato e digerito un po’ d’istinto. Lasciandosi andare alle venature opache delle sue intenzioni; facendosi carico delle zone d’ombra, delle inspiegabili inversioni strutturali e tematiche. Come se, per intenderci, dal palcoscenico arrivassero colpi di pistola che creano scompiglio proprio perché non si capisce dove siano diretti. Per fare ciò ci vogliono ritmo, omogeneità di stile nell’interpretazione, dialoghi tesi, «pause» e azioni serrate. Ci vuole, di fondo, un’allusività capace di essere tuttavia concreta. Prerogative sulle quali, secondo noi, non punta abbastanza la messinscena del trentaduenne Fausto Paravidino (già drammaturgo di successo): affresco straniato di un’umanità metaforicamente vittima di costrizioni dove le declinazioni ironiche (soprattutto quelle proprie dei due angeli del male interpretati dallo stesso Paravidino e da Paolo Zuccari) rischiano di diluire troppo il mistero e l’angoscia della situazione. Se da un lato, infatti, il grottesco va bene dall’altro, bisogna pur calibrare la giusta distanza dal ridicolo. Considerando che qui i personaggi in gioco pretendono ognuno uno spazio (fisico e insieme simbolico) ben definito: c’è la fragilità oscura e infantile del cliente/succube Stanley (un Giuseppe Battiston non del tutto valorizzato); c’è la ritualità metodica dell’albergatrice Meg (Ariella Reggio); c’è la presenza cauta del marito Petey (Beppe Chierici, secco e puntuale); c’è l’evanescenza della giovane vicina Lulu (Valentina Cenni).

E c’è soprattutto l’imprevedibile violenza delle due maschere malefiche di Goldberg e McCann: cavalieri del terrore lontani anni luce dall’arrendevole quiete di quella stanza fiorata in cui l’odore del tè finisce col mischiarsi a quello del sangue. Tutto avviene in poco tempo. Tutto potrebbe non essere mai avvenuto o avvenire sempre e ovunque. Quel che davvero conta è sentirsi chiamati dentro: rabbrividire piuttosto che capire. Al Quirino fino a domenica 27.

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