Ai mercati  non bastano le promesse del G20

Il G20 si è chiuso con la promessa di massicce misure per risolvere la crisi finanziaria. Ma non è certo che tutte diventeranno operative rapidamente

Ai mercati  non bastano 
le promesse del G20

Il G20 si è chiuso con la promessa di massicce misure per risolvere la crisi finanziaria che si sta abbattendo sull’Europa e sugli Usa e che investe in particolare l’Italia. Ma non è certo che tutte diventeranno operative rapidamente. Mario Draghi le ha sintetizzate affermando che i governo e gli operatori della finanza debbono fare entrambi la loro parte. La proposta che si sta elaborando è quella di una dilatazione quantitativa e qualitativa del Fesf (Fondo europeo di stabilizzazione finanziaria) la cui dotazione verrebbe accresciuta dagli attuali 440 miliardi addirittura a 3mila, per consentirgli sia di comperare titoli pubblici degli Stati in difficoltà sul mercato secondario (cioè non di nuova emissione, ma preesistenti) per sostenerne le quotazioni, sia per permettergli di intervenire a favore delle banche, concedendo loro prestiti, per fare fronte ai loro fabbisogni, eventualmente mediante la garanzia costituita da titoli del debito pubblico degli Stati dell’Eurozona. Di fronte a questo scenario internazionale, sono completamente irreali gli interventi di Emma Marcegaglia, con il suo confuso spezzatino di misure fiscali, ma appare anche sfasato l’ottimismo glaciale sfoggiato dal ministro Tremonti che ha affermato che l’Italia ha fatto una manovra che mette il bilancio in condizioni migliori di quelli degli altri, ha promesso misure per la crescita, senza indicare quali ed ha sostenuto che l’Unione Europea deve emetter eurobonds per rilevare il debito pubblico dei Paesi in crisi, creando un apposito ente. Si potrebbe argomentare che l’aumento della dote e delle competenze del Fesf e gli eurobonds sono due soluzioni simili. Ma ciò può essere vero (solo parzialmente) nella filosofia finanziaria. In pratica sono due strade totalmente diverse. Il Fesf c’è già, si tratta di aumentarne la dotazione, mentre l’architettura degli eurobonds è tutta da costruire, a cominciare dall’ente emittente. Inoltre il Fesf non impegna l’Unione europea, ma solo gli stati membri a differenza degli eurobonds, che comportano un nuovo compito della Comunità che implica modifiche del Trattato europeo. Ciò richiederebbe il voto (incerto) dei vari membri. Comunque, il compito immediato del Fesf è di intervenire per la Grecia, che rischia l’insolvenza. Se questa ci fosse, le banche greche che posseggono molti titoli del debito greco fallirebbero, con effetti a catena sul sistema bancario dell’Eurozona. Il debito degli Stati e la situazione delle banche sono intrecciati. Mario Draghi ha espresso questo concetto per argomentare che sia gli Stati sia la finanza debbono fare la loro parte. In questa sua frase c’è un messaggio per la Bce, per le banche e per il Fesf con riguardo all’acquisto di debito pubblico, ma anche per il governo italiano e per le parti sociali. L’Italia non è la Grecia. Abbiamo i mezzi per pagare gli interessi sul debito pubblico, perché da anni ne siamo oberati e nel nostro bilancio c’è, da tempo, la voce degli interessi sul debito, che pesa circa il 5% delle spese. Questa voce è incorporata nel bilancio, come le spese previdenziali o quelle per gli stipendi. E con la riduzione del deficit allo 1,5 nel prossimo anno e allo 0,2 nel 2013, il nostro debito rimane bloccato. Dunque la Bce ora e il Fesf in seguito posso stare tranquilli? In teoria si, ma in pratica no, perché l’opinione corrente è che se l’Italia avesse una maggior crescita del suo prodotto nazionale (Pil) e un minore onere pensionistico, il mantenimento del pareggio del bilancio sarebbe più certo. Così occorrono misure concrete di natura non contingente, da effettuare subito, di innalzamento delle età pensionabile, di messa sul mercato di immobili pubblici e di quote di imprese statali come le Poste e l’Anas che sono in utile, di privatizzazioni di imprese locali e di effettuazione di liberalizzazioni e interventi finanziari per far partire gli investimenti in infrastrutture, banda larga, Tav, Ponte sullo stretto, autostrade, investimenti nell’energia.

Occorre inoltre affrontare i problemi delle banche con apposite misure, in cambio della loro collaborazione sul mercato del debito. Il viaggio a Washington del ministro Tremonti avrebbe dovuto chiudersi con annunci di cose concrete, non con affermazioni generiche. Perché ai mercati, già irrazionali per conto proprio, bisogna dare fatti certi.

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