Aiuto, senza gli status symbol la nostra vita non ha più gusto

C’erano una volta gli status-symbol. Segni di distinzione sociale, benessere raggiunto, posizione elevata. Da bravo intellettuale, io li ho sempre disprezzati. C’era in essi un misto di arrivismo, conformismo e bullismo che detestavo. Negli anni ’80 lo status-symbol per eccellenza era il pc, poi nei primi anni ’90 fu la volta del telefono cellulare. C’è stato, naturalmente, il Suv, mentre l’ultimo in ordine di tempo potrebbe essere identificato con l’iPhone, ma non il 4: il 3.
Uno status-symbol dura poco, perché, a differenza dei veri simboli di ricchezza (la Ferrari, o un casale a Pienza, o una villa alle Eolie), la sua caratteristica sta nell’accessibilità. Un Suv non è una Ferrari, e con un mutuo lo può (lo poteva) comprare chiunque, o quasi. Nel caso, poi, della tecnologia, l’esperienza ci ha insegnato che la battuta di Groucho Marx («Queste regole sono semplicissime, le capirebbe un bambino di 4 anni. Chico, vammi a trovare un bambino di 4 anni, perché io non ci capisco niente!») è meno assurda di quanto sembri. In un batter d’occhi il computer diventò un giocattolo e il telefonino comparve tra le mani di qualsiasi adolescente, di qualsiasi bambino.
La ragione, ovvia, è che lo status-symbol è innanzitutto un giocattolo. Se si trasforma in un giocattolo, è perché lo era già prima. La rivoluzione tecnologica si fonda su un’idea, geniale, di estensione indefinita dello stato psicologico infantile. In tutti noi c’è un fanciullino, e trovarlo non è poi così difficile. L’importante è che questo fanciullino sia allegro e spensierato. Le fiabe che mi raccontavano i miei nonni erano piene di piccoli orfani costretti a vivere con la matrigna: così erano Biancaneve, Cenerentola, Hansel e Gretel, ecc.
La nuova filosofia del giocattolo ha combattuto una battaglia invisibile ma cruenta contro l’Infanzia Infelice, fino a respingerla in uno stato di quasi-inesistenza. Il trionfo del Giocattolo, o del Giocattolone, in chiave di status-symbol implica una regressione del lutto. Oggi, però, alla richiesta di un amico di enumerare gli status-symbol del nostro tempo non ho saputo rispondere: non me ne è venuto in mente nemmeno uno. Non è che manchi la voglia di giocare, ma a essa non si lega più nessuna dinamica di distinzione, di potere, di supremazia. Anche l’iPhone 4 e l’iPad sono splendidi giocattoli, ma non rappresentano nessun terreno di conquista. Averli non garantisce prestigio supplementare.
Ma distinzione, potere, supremazia sono solo alcune delle infinite declinazioni del Desiderio. Dicendo questo, voglio precisare che io non sono un romantico e non penso al Desiderio come a un’entità a sé stante, uno stato divino scisso da qualunque scopo, un’inquietudine metafisica, una febbre creaturale. Prima di tutto viene la realtà: è la bellezza della donna (o dell’uomo) a suscitare il desiderio, non l’inverso.
Mi sono chiesto spesso la ragione dello strano calo del desiderio (segnalato dal Rapporto Censis dello scorso anno) di cui siamo vittima un po’ tutti, e di cui la rarefazione degli status-symbol è un piccolo sintomo. Le risposte sono state molte. Eccone alcune.
Uno. La scalata sociale appare troppo difficile in un mondo sul margine della recessione e della bancarotta, per cui prevale la tendenza a vivere giorno per giorno. E poi esibirsi troppo è diventato pericoloso, meglio tenersi in disparte.
Due. La società non è più un corpo omogeneo: per desiderare di avere quello che hai tu, devono esserci in ogni caso un «io» e un «tu» in relazione tra loro, e se la relazione manca il desiderio si dissolve.
Tre. L’idea di «benessere» si è trasferita dal possesso di oggetti alla pratica degli stili di vita (lifestyle), segno che il mito del benessere come espansione è stato sostituito da una tendenza epicurea a ricercare ciò che è sufficiente a un minimum di benessere.
Ma forse la risposta più profonda non sta qui. Certo, la crisi può generare stati depressivi che impediscono ogni euforia di sviluppo (senza la quale gli status-symbol hanno vita grama). C’è però qualcosa di più, che io identifico con una specie di perdita del senso della realtà. Il vero rischio di una crisi come quella attuale è che si trasformi in una crisi antropologica e culturale. Il potere politico, l’impresa economica, il successo mediatico sembrano diventare sempre meno appetibili. La tv sta perdendo importanza: da anni non produce niente di nuovo. Apparire sul video non è più così importante. La politica, poi, sembra ridursi a maneggi, festicciole ambigue, corruzione. Perfino gli affari non destano più l’entusiasmo di un tempo. In una situazione in cui i consueti punti di riferimento sembrano crollare, il rischio è quello di perdere il gusto della realtà. Il senso, infatti, si manifesta sempre come gusto: ciò che ha un senso, ciò che soddisfa, ha un gusto. Becero, superficiale, maleducato, criticabile fino alla noia, il vecchio status-symbol era però un indicatore del desiderio. Ma forse le crisi non sono soltanto negative. Non so se da quella presente usciremo migliori: ma è certo che, per uscirne, dovremo recuperare il senso della realtà (e quindi del suo ordine, delle sue priorità, dei suoi livelli d’importanza) in una dimensione più personale.


In fondo è già accaduto, per esempio alla fine dell’Impero romano, quando il potere politico e la struttura amministrativa non poterono più offrire ai cittadini le garanzie per una vita dignitosa. Vi fu chi trasformò questa grave difficoltà in un impeto, in un’insurrezione personale. Così nacque il Monachesimo, da cui prese forma una civiltà nuova.

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