Alga, una vita per i bambini del Sudan

«A Milano si sono ben integrati solamente i miei connazionali che sono arrivati trent’anni fa»

Alga, una vita per i bambini del Sudan

Appena entrati nel salotto «etno-sincretico» di Alganese Fessaha (tappeti colorati, icone cristiane, induiste, ebraiche e buddhiste, profumi di incenso e musica soft), lo sguardo cade su una scultura in bronzo del 1600 che simboleggia l’«Evoluzione», ossia, come ci spiega la dottoressa Alganese (Alga per gli amici), «il Dio Vishnu circondato dalle tre shakti, figure femminili, simboli del potere divino. Dall’ombelico di Vishnu, che è l’evoluzione, esce il Brama, la creazione, che porta Shiva, la distruzione». Come dire, l’energia primordiale è donna.
Alga è nata ad Asmara in una famiglia della buona borghesia eritrea. A Milano è arrivata negli anni Settanta per studiare Scienze Politiche e Diritto Internazionale all’Università Cattolica. Nonostante si sia ben integrata, il cuore non ha mai smesso di battere per la sua terra. «Approfittavo delle vacanze per andare nelle zone liberate dal Movimento di Liberazione Eritreo - ricorda -. Fui l’unica donna dall’estero a partecipare al primo Congresso del Fronte. In seguito, molte altre donne iniziarono a battersi per il nostro Paese». Ex dirigente di una multinazionale, sette lingue, una figlia sociologa, oggi è dirigente in una società di marketing e comunicazione. Ed è molto attiva nel sociale.
Di cosa si occupa?
«Faccio parte del Capse, il Centro Assistenza Profughi Eritrei in Sudan, e coordino le adozioni a distanza di bambini eritrei nel Sudan. L’Eritrea è stata dichiarata zona di emergenza a causa della lunga guerra civile. I problemi sono sempre molti: profughi, disoccupazione, case distrutte, mancanza d’igiene e non solo. I bambini sono spesso orfani o abbandonati. L’adozione a distanza è uno dei mezzi più efficaci per aiutarli». (Ci mostra le foto di una ventina di splendidi bambini dal volto dolce e triste, ndr).
In cosa consiste l’adozione a distanza?
«Si aiuta un bambino senza sradicarlo dal proprio ambiente, dalla propria realtà culturale, sociale e familiare. (Vedi box, ndr). I progetti sul territorio sono fondamentali per l’evoluzione delle società meno fortunate. Inoltre si arginerebbero le fughe massicce di coloro che si lasciano un Paese devastato alle spalle o dove esiste un regime di dittatura come nel caso degli eritrei».
Quali sono i vostri progetti?
«Abbiamo creato un’associazione non governativa, si chiama Gandhi, e ha sede ad Abidjan, in Costa d’Avorio. Stiamo costruendo una casa-scuola destinata ad accogliere oltre 250 ragazzi e insegnare loro una professione. Ma il nostro obiettivo è anche di responsabilizzare le donne africane per renderle sempre più responsabili e consapevoli. È il solo modo per aiutarle ad affrontare la povertà, le violenze domestiche, la fame, la disoccupazione e l’ignoranza».
Sono bene integrati gli eritrei a Milano?
«Quelli che sono arrivati trenta o quarant’anni fa, sì.

Chi invece è arrivato dopo è abbandonato a se stesso, senza casa, lavoro e assistenza sanitaria. Un disastro».
Soluzioni?
«Ripeto, i governi europei dovrebbero impegnarsi a fare una politica sul territorio così nessuno scapperebbe più dal proprio Paese. Il resto sono parole».

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