"Altro che arte globalizzata Io dipingo la guerra di civiltà"

Il pittore milanese Luca Pignatelli che espone alla Biennale di Venezia attacca frontalmente il mito dell’avanguardia a tutti i costi

«Io sono un artista italiano», dice Luca Pignatelli, appena ritornato da Venezia dove la sua grande e complessa opera La battaglia di Lepanto, al Padiglione Italia della 53ª Biennale, ha suscitato l’ammirazione di Gillo Dorfles. Italiano? La precisazione è talmente ovvia da apparire sconcertante.

Lei è nato a Milano nel 1962, ha un bellissimo, grande studio in una vecchia via milanese della zona sud: la sua italianità mi sembra fuori discussione...
«Ma io non sto parlando di dati anagrafici. Se vuole, aggiungo che provengo da una famiglia pugliese di medici e che mio padre era anch’egli pittore. Ma il punto non è questo. Il punto è l’arte. Non potrei essere artista senza essere europeo e italiano. Affondo le mie radici in un terreno profondissimo, profondo secoli, anzi millenni. Nel Quattrocento italiano, ma anche nella pittura pompeiana, nel barocco della Mitteleuropa, ma anche nella statuaria greca. Nel mio lavoro, i rimandi al passato sono continui, mi ci confronto quotidianamente».

Sì, i vasi attici, le teste di eroe, le scene di caccia sullo sfondo di una vegetazione che sembra uscire da una villa vesuviana, dipinte nelle sue bellissime tele esposte nel 2007 al Museo archeologico di Napoli. Però è una dichiarazione pericolosa. Tutti i fautori delle avanguardie potrebbero accusarla di passatismo, come del resto hanno fatto con il Padiglione Italia...
«Ma che cos’è l’avanguardia? È un lavoro nel presente che avrà sempre bisogno del filtro del tempo per essere capito e guardato con occhi liberi, fuori da visioni svilenti e mercificatrici. Il tempo e il luogo sono le grandi dirimenti e soltanto i Soloni di una certa oligarchia culturale possono presumere di sapere oggi che cosa sarà vero domani. Io non potrei essere ciò che sono senza l’arte e l’architettura che stanno alle mie spalle. Quell’arte e quell’architettura. Ma anche i grandi eventi storici, le guerre, le invasioni. Contro il globalismo culturale, contro lo stile internazionale, io vado pensando a un nuovo localismo, a un profondo radicamento nella propria cultura».

Al Padiglione Italia lei espone una grandiosa composizione dove ritornano, estremamente stilizzati, alcuni suoi temi preferiti: la Nike, l’aereo. Ma anche stendardi e il Leone di Venezia. Che legame ha quest’opera con il tema del Padiglione che è un omaggio a Marinetti?
«Nessuno. Non mi interessava fare nessun omaggio al futurismo. Piuttosto è stato il luogo a influenzarmi, quello straordinario ambiente che è l’Arsenale veneziano, fucina delle navi della Serenissima ma anche porta d’Oriente, mondo mediterraneo. Ho creato l’opera per quel luogo, sotto l’influenza del genius loci (odio l’espressione site specific), così come era accaduto a Napoli, dove ho creato le dodici grandi tele della caccia pensando alle rappresentazioni nelle sale dei grandi palazzi nobiliari».

E la sala dei vasi attici dipinti su grandi tele usate come copertura dei vagoni ferroviari e corrose dal tempo e dall’uso?
«Li ho chiamati Schermi. Perché questo erano per gli antichi. Veri e propri film a immagini fisse dove erano rappresentate sui vasi le loro vicende, la loro storia e i loro miti: le cacce, gli amori, le lotte, le scorrerie, le battaglie.

Le battaglie sono il suo nuovo tema?
«È un tema che dalla pittura pompeiana a Paolo Uccello ha dato risultati altissimi. E che trovo drammatico e affascinante. Per La battaglia di Lepanto che ho esposto alla Biennale, ho trovato a Domodossola una bellissima tela ferrosa, sulla quale ho applicato le sagome. Nella battaglia ritorna un po’ il tema della caccia, cioè quello di una civiltà che perdura, ma in costante clima di minaccia».

Sente questa minaccia attuale?
«Certamente, ma non appartiene solo all’oggi. La mia è una visione “astorica”, penso a un tempo circolare, in senso schopenhaueriano. La minaccia è sempre presente, lo è anche la caccia, limitazione della libertà individuale.

La storia delle immagini è fatta di una perenne ambivalenza. Il treno e l’aereo, che sono altri miei temi, sono anch’essi simboli ambivalenti. Rappresentano il piacere del viaggio ma anche il dolore della deportazione. Pensiamo ai treni dell’Olocausto».

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