«Ana No» la negazione del dolore

«Ana Paucha, svegliati. Lascia la casa prima che spunti il sole. La luna è morta... Questo viaggio devi intraprenderlo con dignità, senza paura... Si muove, nera presenza. Non è il nero della notte a renderla tanto nera, ma il nero degli abiti neri... Snaturata, scolorita dal lutto. Ana No. Una volta era bianca... Non si chiamava ancora Ana Paucha. E neanche Ana No. Si chiamava Ana. Anita... Esce nella notte buia senza sogni... Piccola. Minuscola. Ricurva. Non riesce più a stare diritta da quando la terra la chiama con la voce dei suoi morti». Bastano queste frasi smozzicate dell’avvio per avere la sensazione bruciante di una storia, di un racconto in presa diretta di una tragedia fonda che sta per compiersi. Non già con gesti, eventi, personaggi strutturati secondo un ordito convenzionale, ma nell’addensarsi, nel crescere lutulento, vischioso di una materia torbida, ammorbante.
È questo l’impatto angoscioso che suscita, fin dalle prime pagine, il romanzo spagnolo (ma scritto in francese) Ana No (ed. L’ippocampo) di Agustín Gómez-Arcos (1936-1998). L’autore approdò - dopo le contrastate esperienze in Spagna quale attore e teatrante di pregio negli anni Sessanta - al milieu culturale parigino, nel decennio successivo, con alcuni libri fortunati (L’agnello carnivoro, Maria Republica, Scene di caccia furtiva e, appunto, Ana No) e fu portatore di storie, personaggi visceralmente legati sia a drammatiche esperienze autobiografiche, sia a vicende epocali tipiche della tetraggine oppressiva del regime franchista e dei guasti della guerra civile.
In particolare Ana No ripercorre, con toni ossessivi, incalzanti, il viaggio doloroso verso l’autodissoluzione. E, al contempo, verso il compimento di un’idea-guida ineludibile - rivedere il figlio superstite dei tre incappati negli orrori della rovinosa guerra, il più piccolo, ora in carcere per il resto dei suoi giorni - che dalla solare Andalusia spinge la protagonista a marciare, estenuata, verso l’ostico Nord, il nulla, la morte. In questa marcia logorante, dissennata al termine d’ogni speranza, d’ogni consolazione, saranno compagni di Ana altrettanto impotenti, altrettanto desolati, una vecchia cagna, un musicista cieco e un circo di povericristi come lei (altrimenti leggibili come l’innocenza, la poesia, la follia).
Ana No si basa su un impianto narrativo certamente eterodosso con quella scrittura rotta, «battente» - frasi (quasi) telegrafiche, un’iterazione esasperata di simboli, metafore di luttuoso senso - e, grazie anche alla rigorosa, intensa traduzione di Vera Verdiani, attinge risultati originali prospettando una perorazione morale, civile di largo respiro.

Tanto da far dire alla raffinata scrittrice francese Edith de la Héronnière nella sua acuta Prefazione: «Il no di Ana contiene un alto significato simbolico... È il no della resistenza dell’anima accerchiata dal pericolo e dalla guerra, dall’egoismo o, peggio ancora, dall’indifferenza».

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