Anton Bruckner, genio della musica e disadattato della Vienna chic

Piero Buscaroli racconta la vita, il carattere e le opere del compositore austriaco. Un "gigante della Sinfonia" che trionfò nonostante gli insuccessi in società

Anton Bruckner, genio della musica e disadattato della Vienna chic

Per gentile concessione dell'editore Bietti, pubblichiamo un brano dal libro "Bruckner, gigante della Sinfonia" di Piero Buscaroli (pagg. 366, euro 24; a cura di Carlo Fontana e Luigi Ferrari). Si tratta di una parte del capitolo dedicata alla "Sinfonia delle pause", ovvero la Seconda Sinfonia del compositore austriaco Anton Bruckner (1824-1896)

Si ripete comunemente che la vita di Anton Bruckner, quanto a profilo esterno, sarebbe stata monotona e povera di avvenimenti. Ma i cinque anni che corrono dal trasferimento a Vienna all'esecuzione di questa Sinfonia, la prima che vi scrisse, appaiono densi di contrasti talmente estremistici, di contraddizioni così riluttanti a qualsiasi sistemazione conciliatrice, che ci chiediamo come la sua già scossa fibra nervosa potesse superarli e, almeno per quanto attiene alla sfera creativa, vittoriosamente, se colossi del pensiero organizzatore e costruttivo, oltre che della fantasia immaginatrice, come la Terza, la Quarta e la Quinta Sinfonia, si saldano l'uno all'altro senza interruzione, nello sgorgare ininterrotto di una fertile fonte.

L'opera rivela che Bruckner possedette quel senso della critica e dell'autocritica che presiede alla progettazione di una equilibrata architettura, mentre le decisioni della sua esistenza esteriore denunciano una così evidente inadeguatezza, che Bruno Walter ricorse all'esempio di Mozart per spiegare la stessa sproporzione intima in Bruckner, «il cui carattere, forse ancora più ingenuo, per non dir primitivo, sembra stare in una simile misteriosa relazione con la potenza e il significato della sua creazione».

Infantile come Mozart in tutto il mondo estraneo alla sua arte, Bruckner possedeva quella «ingenuità, quel sublime candore» che Schopenhauer indica come caratteri fondamentali del vero genio. Ma la consolazione è apparente e parziale, perché non tiene conto dei «veri genii» che ebbero una visione interamente equilibrata dell'arte e della vita.

La scepsi mondana e comportamentale del nostro tempo non può fare a meno di chiedersi sbigottita come potesse un essere così totalmente sprovvisto di maniere e di arte de prudencia muoversi, sopravvivere e creare in quella Vienna dove, avrebbe detto Lorenzo Gracian, il precursore di Nietzsche, ci voleva «più abilità con un solo uomo in questi nostri tempi, che con un intero popolo nel passato», e dove, più che mai, «errare la vocazione nello stato sociale, nell'impiego, nella scelta della regione e delle amicizie», condannava il «necio», l'inetto, ad una infelicità del tutto appropriata al suo errore. Lungo un percorso mondano impervio, in cui a stento sarebbero bastate le risorse di un consumato conoscitore degli uomini e delle situazioni, vediamo avanzarsi un raro miscuglio di contadino e di prete di paese. Gli amici von Mayfeld, gente colta di Linz che lo amava e aveva captato in lui la scintilla divina, gli chiesero un giorno quale mai falegname tagliasse i suoi abiti; ch'egli pretese tuttavia sempre eguali, tali e quali, pur conoscendone la goffaggine ed egli stesso ridendone, dai sarti di Vienna.

Il suo cranio rotondo e sempre rasato era quanto di meno ispirato, di meno intellettuale si potesse offrire alle attese di una capitale e di una società in cui l'abbondanza pilifera, espressa da capigliature rigogliose, da fluenti barbe complicate da ondose basette attortigliate su ritorti baffi, aveva stretto un rapporto apparentemente inestricabile col possesso di attitudini artistiche.

E l'educazione. Troppo presto gli era mancata la diplomazia naturale dei sentimenti e delle maniere, quale si apprende in una casa e in una famiglia, sia pure la più umile, purché ordinata. La sua educazione si era plasmata in convitti, camerate, comunità, sotto la guida di prefetti, rettori, abati, direttori scolastici. L'aspro giudizio di Brahms, «un povero pazzo, che i padri di Sankt Florian hanno sulla coscienza», riflette lo sconcertante contrasto offerto da questa epitome di totale ineducazione alla vita moderna, in atto d'inoltrarsi ignara nel terreno ormai incolto e arido della Sinfonia, in un'avventura spirituale tra le più rischiose dell'arte di quel tempo, di cui l'esperto Brahms sentiva tutta la forza intimidatrice.

Per lunghi anni aveva assorbito la cerimoniosità delle comunità clericali, gl'inchini, i baciamano, le maniere di un ossequio e di una sottomissione rituale e formale che, tolte fuori della loro aria naturale e trasferite nella società totalmente laicizzata di una grande città, non potevano non apparire untuose, ridicole e perfino servili. Ormai, era troppo tardi perché la nuova vita della metropoli potesse modificare quel carattere così indurito, o fargli almeno sorgere utili sospetti sul suo comportamento.

L'irrimediabile senso di estraneità e inadattabilità ch'egli percepì chiaramente, che gli strappava continui e queruli lamenti, che lo spingeva a ricorrenti fughe nella pace di Sankt Florian, o, quando fosse troppo lontana, nell'Ersatz che se n'era trovato alle porte di Vienna, l'abbazia di Klosterneuburg, non divenne mai spunto di un esame critico dei suoi costumi.

Semplicemente, nelle ore d'inquietudine correva a rifugiarsi nell'abbazia, dove trovava la stessa organizzazione, lo stesso tono sociale cui l'aveva avvezzo Sankt Florian, oltrea un grande e famoso organo in cui appartarsi, e da cui mobilitare e scatenare tempeste sonore; ch'era poi il suo modo di dominare e regnare.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica