
Nobilitare il tanto vituperato petrolio, trasformarlo in un'opera d'arte ipnotica e solleticare così la curiosità dei sauditi: l'artista vicentino Arcangelo Sassolino ci è riuscito e senza snaturare sé stesso. Chi lo conosce sa come lavora: ampia ricerca, anche tecnologica, sui materiali e l'idea fissa per cui «in ogni oggetto, in ogni cosa, alberga un conflitto». Nel wokismo/buonismo imperante Sassolino si muove spesso controcorrente: lo abbiamo notato nella sua partecipazione al Padiglione di Malta della 59ª Biennale di Venezia, nelle personali al Palais de Tokyo di Parigi e all'Accademia di Francia a Roma e poi nei musei, dal Peggy Guggenheim al Mart, dove sue opere sono state esposte, dimostrando la sua abilità ad applicare le leggi invisibili della fisica ai materiali più brutali, sconfinando in territori poco esplorai dall'arte di oggi (l'ingegneria, la chimica dei materiali).
Alla Biennale di Arte Islamica di Jeddah, da poco aperta e in corso fino al 25 maggio, Sassolino è stato l'unico artista italiano invitato: presenta Memory of Becoming, un'opera (già molto fotografata) strutturata come un disco di otto metri di diametro che ruota lentamente, di giorno e di notte, e su cui cola olio industriale nero. «Centinaia di litri di olio scivolano sulla superficie e poi gocciolano a terra: ciò che cade viene riciclato con un sistema di autoricarica studiato per l'occasione. Un meccanismo complesso che ragiona sull'instabilità dei materiali: ogni goccia muta la superficie, crea nuove forme, il giorno dopo ciò che è tracciato diventa qualcos'altro. Qualcosa inevitabilmente si perde, come sempre accade nella vita. Dare del tempo alle sculture e farle uscire dalla loro staticità sta diventando la mia cifra». Dal telefono la voce di Arcangelo Sassolino, con chiara cadenza veneta, giunge entusiasta e assertiva. Ingegnere mancato per un soffio, giovanissimo inventore di giochi (uno anche brevettato), emigrato per qualche tempo negli Stati Uniti per poi tornare nell'amata Vicenza («il mio humus è qui, tra le tante piccole e medie aziende che lavorano alacremente c'è il terreno ideale per sviluppare la mia arte»), Sassolino sa che l'esperienza di questi mesi in Arabia Saudita è importante, e noi siamo certi che presto anche l'Italia gli dedicherà lo spazio che merita (in Quadriennale sarebbe perfetto), magari per riproporre il progetto Damnatio Memoriae già presentato con successo in Germania: si tratta di una «performance scultorea» in cui una copia di una scultura classica viene polverizzata da un complesso meccanismo industriale. «Sono legato - dice - alla tradizione del Futurismo, dell'Informale, dell'Arte Povera, ma credo che ora sia il nostro turno di spingere e cercare altre strade che tengano conto del passato e ci portino nel futuro. In questo momento in cui l'arte si smaterializza, io cerco la materia: voglio scuotere con l'evidenza fisica del mio lavoro chi lo osserva. In Damnatio Memoriae si riduce una scultura in polvere, un materiale che poi impregnerà lo spazio, si espanderà in esso, potrà essere respirato: parcellizzare il passato per renderlo fruibile a tutti non è un'azione violenta come potrebbe sembrare, è invece un'azione vitale, oserei dire necessaria».
Con quell'aria così ordinaria da risultare eccentrica per il gran circo esasperatamente freak del mondo dell'arte, Arcangelo Sassolino in trentacinque anni di carriera ha attraversato illuminazioni e ripensamenti, picchi e inciampi: se ne è andato in America per poi ripiegare su Carrara, dove imparare a maneggiare davvero il marmo prima di capire che doveva tornare là dove tutto era iniziato, a casa sua, in quella Vicenza dove sta attualmente completando un nuovo atelier finalmente in grado di contenere le sue giga-creazioni, sculture industriali dall'anima mobile e dai titoli lirici. «Sono opere che mai sarebbero nate senza il confronto, la collaborazione e gli stimoli di tante aziende della zona, che mi aiutano nella ricerca scientifica sui singoli materiali e nelle soluzioni ingegneristiche più ardite. Giro spesso nei loro uffici, nei magazzini: rubo con gli occhi, ci sono produzioni formidabili. Se fossi rimasto in America a scimmiottare la Pop Art avrei snaturato me stesso: la mia terra mi offre la possibilità di creare cose mai realizzate prima, di trasformare materiali industriali in concetti poetici».
Demiurgo apprezzato dal mercato («la carriera non è mai lineare, come la vita»), risoluto ma non arrogante, Sassolino segue il credo dell'instabilità: novello Eraclito, è convinto che il conflitto sia padre di tutte le cose. Arcangelo Sassolino («nome impegnativo, un grande angelo e un piccolo sasso: fin da bambino mi sono sentito una certa responsabilità per l'ossimoro che mi definiva all'anagrafe») partorisce lavori, perlopiù sculture e installazioni, che consistono in congegni che generano performance: un macigno che flette ma non rompe un piano di vetro, cippi di legno che esplodono all'improvviso, bottiglie che fendono lo spazio, per poi disintegrarsi, a ritmo casuale. La sua arte è fatta di tensione, sospensione, imprevedibilità. Quest'artista sulla carta così normale (maschio, bianco, cis, occidentale, 57 anni, figlio della ricca provincia veneta) ha dentro di sé un demone dell'arte che di rado abbiamo visto: ci colpisce per il gusto viscerale nel fare e rifare, per l'immaginazione che fa impazzire gli assistenti di studio e gli ingegneri chiamati a realizzarne i progetti, per la convinzione che il lavoro e lo studio quotidiano siano «una salvezza straordinaria».
Per nostra fortuna Arcangelo Sassolino rivendica il suo spazio in questo nostro tempo: «Come artisti non possiamo lasciarci vivere.
Forse sono un po' naïf, ma penso che i prossimi lavori saranno per me risolutivi: pensare a ciò che dovrò fare mi dà la carica per continuare. Per me l'arte è il futuro da compiere e ogni artista dovrebbe essere il traditore seriale di se stesso, bravo a lasciare andare ciò che ha appena fatto per coltivare il nuovo».
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