Michele Tartaglia, il "maghetto" dei tatuaggi: "Che noia le 'sagrestie' dei tattoo"

Il tatuatore: “Quando arriva quello che ti chiede l’infinito, comprendi che hai davanti qualcuno che non capisce nulla”

Michele Tartaglia, il "maghetto" dei tatuaggi: "Che noia le 'sagrestie' dei tattoo"
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Partiamo dalla fine. Almeno per il momento. Michele Tartaglia, “Centonze”, 59 anni, è uno dei tatuatori di Colors Tattoo, studio in viale Corsica a Milano. Fa parte della vecchia guardia, ma ha un occhio fisso sui giovani tatuatori, di cui talvolta non condivide l’approccio eccessivamente distaccato con i clienti, e dei quali si preoccupa di valorizzare la tecnica (“spesso sono molto più bravi di coloro che li hanno preceduti”) e, soprattutto, la voglia di apprendere (“l’errore della mia generazione è stato quello di non condividere”).

Ma, dicevamo, Tartaglia è un caso atipico. Soprattutto nell’approccio con chi ha di fronte (collega, cliente o anche semplice curioso). Parla, si dilunga in dettagli e ricordi. Si apre a ogni tipo di domande e a (quasi) tutte le richieste di chi gli chiede un tatuaggio.

“Ho iniziato a tatuare ufficialmente con macchinette nel 1989”, racconta. “Prima avevo provato a mano e, durante il servizio militare, avevo iniziato a farmi delle macchinette artigianali. Ero un bersagliere, quindi facevo dei leoncini o i cappelli con le piume tipiche del reggimento. Un miracolo che nessuno si sia preso niente (anche se va detto che ogni volta che facevo una macchinetta mi veniva automaticamente sequestrata, quindi era come se fosse usa e getta)”.

Nel 1989 il grande salto: “Ho comprato delle macchinette vere. Erano bellissime, anche se non sapevo come farle funzionare. Nessuno ti diceva niente perché tutti erano gelosi del proprio lavoro e avevano paura di perdere i clienti. Tutto questo però è stupido perché se sai fare il tuo mestiere non devi avere paura di niente”. Tartaglia inizia quindi come autodidatta (“anche facendo delle cagate fotoniche”), si trasferisce a Los Angeles da Kary Barba (“che ancora oggi è bravissima”), lavora a Monza (“quando ho iniziato, gli studi erano pochissimi e non c’era neanche la regolamentazione”), a Buccinasco (“ho guadagnato tantissimo e speso tantissimo”) e alla fine al Colors tattoo (“qui è splendido perché riusciamo a parlare e scherzare, tra colleghi e anche con i clienti”).

Michele è nel tempo, ma allo stesso tempo fuori da esso e si incazza quando qualcuno entra nello studio, dove lavorano tantissimi giovani, e gli si chiede se tatua anche lui. Sì, lo fa e pure bene (e in fretta, se necessario). “La cosa bella è che tra tatuatore e cliente ci sia un rapporto. Quando vedo le ‘sagrestie’ degli altri studi, dove il tatuatore non ti parla e sembra che gli faccia quasi schifo tatuarti, non lo capisco. Si tratta di un modo che reputo sbagliato: non stai lavorando per il tuo ego, ma per soddisfare il cliente, per farlo felice”. Gli chiediamo che cosa significhi per lui il tatuaggio ed ecco che, per spiegarci meglio, estrae dal cilindro della memoria un ricordo: “Una volta è venuta una ragazza che aveva appena compiuto 18 anni. Era una ballerina e aveva realizzato un carboncino bellissimo. Mi chiede: ‘Me lo riesci a fare così?’. Io gliel’ho fatto uguale. E poi rincara con le domande: ‘Che cosa provi a tatuare?’. È una cosa che nessuno mi aveva chiesto, ma è una cosa molto particolare. Non è faticoso farlo, è come respirare e non ci avevo mai pensato. In quel momento lì però l’ho fatto e ho capito che fare questo mestiere è un po’ come essere dei maghetti: tu mi dici qual è il tuo desiderio e io lo esaudisco. Il tatuaggio è il sogno, la rappresentazione, di chi hai davanti”.

Ma non sempre è tutto oro ciò che luccica. “Quando arriva quello che ti chiede l’infinito, comprendi che hai davanti qualcuno che non capisce nulla”. A volte Tartaglia sconsiglia alcuni tatuaggi. O alcuni tipi di tatuaggi. “Una volta è venuta una ragazza che faceva l’archeologa e voleva tatuarsi tutto il braccio. Ho provato a farla ragionare, spiegandole che quel tipo di tatuaggio era troppo impegnativo e che aveva tutta la vita davanti per farlo. Poteva iniziare con un piccolo geroglifico e poi, nel caso, ampliarlo più avanti”. C’è pure, però, chi viene rispedito al mittente: “Mi rifiuto, e a volte mi impunto un po’, quando mi chiedono i nomi dei fidanzati. Lo trovo presuntuoso e stupido. Il più delle volte lo fanno perché stanno raschiando il fondo del barile e cercano un modo affinché l’altra persona non li lasci. Pensare di possedere un’altra persona è stupido.

Basta prenderla per mano e ce l’hai con te”.

Perché in fondo il tatuaggio è questo: qualcosa che ti rende libero. E deve lasciare liberi gli altri.

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