Se "l'estinzione" della razza umana si fa mostra

Fino al 19 febbraio, alla fondazione Stelline di Milano, "Extinction - Chapter One" ci racconta di un prossimo futuro in cui una civiltà aliena, captando vecchi messaggi digitali provenienti dalla Terra, cerca di stabilire il motivo di questa repentina estinzione

Se "l'estinzione" della razza umana si fa mostra

"EXTINCTION - Chapter One" è la nuova mostra di Max Papeschi, fino al 19 febbraio alla Fondazione Stelline. Il progetto, ideato dall'artista con Flavia Vago e curato da Stefania Morici, con la collaborazione di AIIO e Michele Ronchetti e la speciale collaborazione di Gianluca Marziani, è organizzato dalla Fondazione Stelline e Arteventi e patrocinato dal Ministero della Cultura, dalla Regione Lombardia e dal Comune di Milano. È stato realizzato grazie a un network di partner importanti, nato con il supporto di MI HUB AGENCY e ArTI, main sponsor, e la speciale partnership di Gobbetto Resine e Relco Group, che hanno realizzato l’allestimento degli spazi. In particolare il light design è stato curato per Relco dall’arch. Michela Viola, l’allestimento è a cura dell'architetto Giovanni Musica (studio Mgalab), il design sonoro e la musica sono firmati da Fabrizio Campanelli e il progetto grafico è stato curato da Sergio Caminita.

"EXTINCTION - Chapter One" ci racconta di un prossimo futuro in cui la razza umana si sarà estinta: una civiltà aliena, captando vecchi messaggi digitali provenienti dalla Terra, cerca di stabilire il motivo di questa repentina estinzione.

In un'atmosfera surreale e onirica si collocano le due installazioni della mostra. “Zwergen Dämmerung” , letteralmente “il crepuscolo dei nani”, è rappresentato da un esercito di 54 statue alte 1.80, col corpo dei fieri guerrieri di terracotta di Xi’an e le teste di nani da giardino: un “ritrovamento” emblematico perché ci racconta di una civiltà in perenne conflitto, oltre a mescolare simbolicamente l’“alto” e il “basso”, a simboleggiare l’impoverimento culturale. “Snow White Overdrive” è invece un’installazione che prevede 4 schermi che mostrano vari processi di elaborazione dell’intelligenza artificiale AIIO, analizzati con 4 differenti input (cultura orientale, cultura occidentale, universo e matematica) contribuendo a far sì che Papeschi riesca ancora una volta a giocare sul labile confine tra il vero e il falso usando la comunicazione stessa come opera d'arte integrata nella mostra.

Il fil rouge che unisce tutte le sfaccettature del progetto è l’ispirazione cinematografica: l’art direction di Flavia Vago si rifà alle atmosfere di Alien, evocate in molteplici sfaccettature, dalla scenografia al sound e al light design.

In attesa dei prossimi capitoli - questo “chapter one” non è che l’inizio di un progetto più ampio e articolato che si svilupperà in ulteriori luoghi, man mano che nuovi dati emergeranno dal “messaggio terrestre originale” - abbiamo posto a Max Papeschi e Flavia Vago alcune domande.

Come nasce l’idea di questa mostra?

Si tratta di un’idea nata cinque anni fa: io e Flavia Vago eravamo a Seoul, e guardando dei vasi coreani ci siamo messi a parlare delle vestigia antiche, della percezione che di esse può avere una persona di una civiltà del tutto diversa in un tempo molto posteriore. Ci venne in mente di pensare a una mostra sulla razza umana e su quello che lascerebbe dopo una repentina estinzione; poi ci occupammo di altro, ma durante la pandemia ci è tornato prepotentemente in mente il concept, perché è stato il primo momento in cui ci siamo detti... forse potremmo davvero estinguerci. Ricordo il marzo 2020, mi sembrava di essere nel mezzo di Mad Max, tutti isolati da tutti, strade vuote, tutto vuoto, blocchi di polizia, inutili mascherine per strada: c’era veramente una sensazione da fine del mondo, e ci siamo detti che era il momento giusto.

Questo spiega la frase presente nel comunicato “un piede nel presente, tanto passato e moltissimo futuro”. Ma questa frase ben si adatta anche alle nuove tecniche che usi per questa esposizione.

Sì, è vero. A cominciare dalla scultura, che sarà pure un medium “passatista”, ma una novità per me, almeno a questi livelli, non essendo mai stata protagonista così importante nelle mie mostre.

Importante ed imponente direi: 54 nani alti un metro e ottanta...

Sono le teste di 54 nani da giardino montate sui corpi dell’esercito di terracotta di Xi’An. Dopo 14 anni sentivo davvero la necessità di cambiare i medium e volevo vedere delle cose tridimensionali e non solo bidimensionali. Al di là delle mie opere tipiche elaborate in photoshop, anche i video che ho fatto usando After Effects, seppure in movimento, restavano bidimensionali. Io volevo trovare nel mio lavoro e nel mio pensiero una terza dimensione. In questo progetto la terza dimensione c’è fisicamente con le statue, che voglio proseguire a fare perché il progetto è pensato proprio per continuare su questa via. E poi c’è il tridimensionale fatto in computer graphic animation e successivamente passato attraverso la AI.

Ecco, parlaci di questi video.

Si tratta di quattro video rielaborati, come dicevo, in 4 modi diversi dalla AI, che su ogni fotogramma fa una revisione a seconda del tema che le viene dato: matematica, astronomia, geografia... I video girano su grandi schermi dove possiamo vedere uno gnomo in rotazione: la particolarità è che la AI ha rielaborato fotogramma per fotogramma il video facendo in modo che la forma della statua dello gnomo si trasformi costantemente. È un’opera quindi che non è né totalmente mia, né totalmente di Michele Ronchetti che utilizza la AI, né di AIIO (l’intelligenza artificiale usata) che si è appoggiata sul mio lavoro di partenza. È in realtà un lavoro ibrido, che fino a 6 mesi fa non era possibile fare: stiamo cavalcando una tecnologia - che è quella della AI applicata al video e all’immagine - completamente nuova. L’utilizzo di queste tecnologie fino a poco tempo fa era proibitivo per via dei costi e di una serie di altre complicanze: non era possibile rielaborare ogni singolo fotogramma dandogli un tema preciso e input precisi con parole chiave. Prima, certo, c’erano artisti come Refik Anadol che non utilizzavano questo programma e che coinvolgevano un team di ingegneri e programmatori; oggi, invece, possiamo farlo in autonomia grazie alle app presenti su internet. Chiaramente occorre comunque che vi operi qualcuno che abbia una certa dimestichezza, un po’ come con Photoshop all’inizio: quando io ero ragazzino non avrei potuto creare le mie opere perché non esisteva Photoshop e non c’era internet, dovevi cercare le riviste, scegliere le foto, creare i collage. Dal punto di vista artistico - e anche filosofico - la cosa bella è che il risultato è il frutto di una reale interazione tra l’uomo e la macchina, e né l’uno né l’altro potrebbero ottenere, da soli, il medesimo risultato.

Questo per ora... ma non pensi esista il rischio che le AI possano un domani sostituire l’artista?

Io credo che gli artisti bravi che sanno portare valore al pensiero ci saranno sempre, ma i semplici illustratori spariranno. A me non cambia niente perché non so disegnare, ma chi lo sa fare potrà essere sostituito dalla macchina. Per ora il pensiero almeno a livelli alti non è sostituibile. La macchina lavora su quello che chiamano “good enough”, ovvero “abbastanza buono”. Quindi se sei un’eccellenza ce la fai, altrimenti no. Forse questo è anche un bene, per una naturale selezione.

E intanto Max Papeschi, con Flavia Vago, il loro team e AIIO fanno una mostra pionieristica...

Questa è la prima mostra pubblica che viene fatta dopo i primi 5 mesi in cui l’intelligenza artificiale è arrivata alla portata degli artisti normali. Il fatto rivoluzionario è proprio che adesso questa tecnologia sia potenzialmente utilizzabile da tutti. Il recente boom delle AI è un fatto ormai conclamato: io domattina potrei svegliarmi e decidere di scrivere la mia autobiografia utilizzando Chat GPT al posto mio: gli racconto la mia storia e lei la scrive anche meglio di me in italiano. Ma la AI ha un cuore, ha un pensiero?

Quale pensi possa essere il futuro dell’arte nei prossimi anni? E cosa pensi dell’arte in rapporto al metaverso?

Il metaverso mi interessa. Anche se adesso la fase di hype ha rallentato un pochino, credo che nei prossimi anni, con l’evolversi e l’assestarsi delle tecnologie sarà una delle chiavi di volta, e si potranno portare avanti progetti anche molto grossi già dai prossimi 5, 10 anni. Credo sia impossibile prevedere cosa succederà tra 20anni, ma secondo me tra cinque inizierà davvero a succedere quello di cui tanto si parlava l’anno scorso, i visori di realtà aumentata e anche virtuale cominceranno ad avere un hardware sufficientemente di qualità e accessibile per tutti e si potrà pensare anche di applicarlo in modo un po’ più massiccio.

Quindi saranno degli occhiali a farci vedere le cose diversamente, o addirittura non ci saranno più neanche quelli?

Forse saranno delle lenti, ma a brevissimo potrebbero provare a ripensare una cosa già provata ma che ha fallito perché era troppo presto come i googleglass. Magari questa volta con la realtà aumentata insieme ad una AI potenziante. Ci saranno enormi mondi virtuali costruiti dalle AI e non dalle persone, e di conseguenza le intelligenze artificiali potrebbero addirittura generare in autonomia nuovi mondi, nuovi pianeti, perfino nuove forme di vita.

Chissà quali saranno allora i tuoi soggetti…

Non lo so, magari mi ritiro… no dai, scherzo, anche perché mi diverto troppo e mi annoierei terribilmente senza lavorare.

Flavia Vago: ci racconti il tuo ruolo in questo progetto?

La mia è la parte più prettamente di scrittura e narrativa, quella legata alla comunicazione - che per noi è sempre parte integrante dell’opera stessa -, oltre a seguire anche la parte di art direction che non è relativa solo l’allestimento, ma anche ad altri aspetti come la scelta della locandina, del font, la musica, le luci... Quindi tutto ciò che riguarda il modo in cui l’esposizione verrà presentata al pubblico. La musica è stata appositamente creata dal compositore Fabrizio Campanelli, che è un nostro caro amico, ispirandoci alla colonna sonora di Alien. Abbiamo trovato tempo fa i “suoni dei pianeti” della NASA, che in realtà non sono propriamente reali, ma certamente molto evocativi, e li abbiamo modificati e musicati con una vera e propria colonna sonora che io a tratti trovo commovente. La cosa bella di questo progetto è anche il fatto che alla fine sia stato un lavoro collettivo, fatto con tanti amici.

Il nucleo siamo sempre noi, ma è bello riuscire a interagire con chi ci sta attorno, rimane affascinato dal progetto e vuole venirne coinvolto. Sembra di girare quasi un film ogni volta, perché intorno a un’idea di partenza si crea un gruppo di lavoro.

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