"Olimpiadi e America's Cup, la nostra vela può vincere"

Medaglia d’oro a Tokyo nel 2021, 4 titoli europei e tre mondiali vinti, l’atleta è tra i superfavoriti di Parigi

"Olimpiadi e America's Cup, la nostra vela può vincere"

Ruggero Tita è il classico velista che parla poco , pensa molto e vive sul filo del vento, ovvero a una velocità che noi animali di terra non riusciamo a calcolare neanche se armati di anemometro. Nato 32 anni fa a Rovereto e laureato in ingegneria informatica, è appassionato anche di sci, snowboard e parapendio, ma non può stare troppo lontano dall'acqua, dalle regate e da quelle manovre con cui l'uomo 10 mila anni fa ha imparato a navigare. Medaglia d'oro nel Nacra 17 alle Olimpiadi di Tokyo nel 2021, quattro titoli europei e tre mondiali vinti come se niente fosse, l'atleta - in tandem con Caterina Banti, suo alter ego velico è tra i super favoriti agli imminenti giochi Olimpici di Parigi.

Dove e quando ha iniziato a fare vela?
«Da bambino sul lago di Caldonazzo che è uno dei laghi meno ventosi del Trentino. È così tranquillo che i miei genitori mi lasciavano andare in acqua da solo con il mio Optimist. Avevo 7/8 anni e su quella barchetta stile vasca da bagno con la prua squadrata oltre a muovere i primi passi ho capito quello che mi poteva dare la vela: la libertà assoluta di vivere l'acqua e il vento. Queste sensazioni t'insegnano a cavartela in tutti i modi da solo. Ho il ricordo indelebile di quando con il mio amico d'infanzia Simone partivamo sui nostri Optimist e andavamo a mangiare il gelato dall'altra parte del lago».

Quando è arrivato il battesimo in mare?
«Prima è arrivato il battesimo sul Garda che è uno dei laghi più belli del mondo, molto più ventoso del mio laghetto di montagna. Uno dei primi ricordi che ho è il meeting degli Optimist a Riva del Garda, una regata a cui partecipano più di mille ragazzini provenienti da ogni angolo della terra. Di solito si svolge a Pasqua quando fa ancora freddo e tira un bel vento che provoca un sacco di onde. Quelle lacustri sono molto più insidiose: nel mare sai sempre da che parte vanno. Possono essere più alte ma alla fine è più facile. Insomma quel periodo è stato molto formativo e da lì pian pianino è partita la mia carriera».

Sognava già di partecipare alle Olimpiadi?
«Sì e a Rio 2016 si è avverato questo sogno. Ho ottenuto un risultato che non era esattamente quello che volevo ma da cui ho imparato moltissimo. Dopo aver speso tanto tempo e tanta fatica per arrivare ai giochi olimpici quando sono tornato ero un po' come un reduce di guerra che non sa più quale sia il suo posto e la sua ragione di vita. Mi ci sono voluti un paio di mesi per riuscire a venire a capo di queste sensazioni e finalmente ho capito che non conta come vai alle Olimpiadi, conta come torni. La prima volta l'obbiettivo era andarci, la seconda ho alzato l'asticella del sogno: mi sono detto che volevo una medaglia, possibilmente d'oro. E da lì ho cercato di capire come fare. Mi è stata molto utile la mia laurea perchè ho strutturato la campagna olimpica su una specie di pensiero-seme: non si può vincere la medaglia preparando la gara negli ultimi tre/sei mesi o sei mesi priHo iniziato a 7 anni sul Lago di Caldonazzo in Trentino Lì ho capito che volevo quella libertà assoluta... vivere l’acqua e il vento ma dell'evento, bisogna prepararla giorno per giorno dei quattro anni che precedono le Olimpiadi e ogni singolo giorno deve essere un piccolo tassello che serve poi per comporre un puzzle gigantesco che vedremo soltanto alla fine dei giochi. Tutte le mattine ti devi ricordare che dall'altra parte del mondo c'è sempre un altro equipaggio, un altro atleta che si sta allenando per cercare di batterti. Insomma se vuoi vincere non puoi sgarrare».

Che emozione è stata?
«Enorme e indescrivibile anche se la situazione non era ottimale: il mondo stava cominciando a rialzare la testa dopo la pandemia, ma l'emergenza era ancora altissima. Siamo stati in Giappone per 24 giorni uscendo dal villaggio olimpico solo per andare al campo di gara».

Com'è stato salire sul podio senza il pubblico?
«Ovviamente un'altra cosa, ma il calore e l'entusiasmo di chi ha guardato la nostra finale e di chi c'era, in qualche modo si sentiva e dev'essere trasparito anche in televisione. È un tale onore essere lì a cantare l'inno del tuo Paese».

A Parigi come sarà?
«Come è sempre stata l'Olimpiade: una gara di testa, di gestione delle proprie emozioni e di abilità nel portare l'equipaggio a performare al massimo. La vela ha un programma molto lungo perché le nostre gare durano sei giorni, ci sono quattro giorni di qualifica più uno di riposo e poi la finale».

Lei è timoniere sia sul Nacra 17 che su Luna Rossa e quest'anno parteciperà anche all'America's Cup, la gara in cui non c'è un secondo. Pensa sia possibile portare a casa dopo l'oro olimpico il Santo Graal della vela?
«Speriamo! Abbiamo una barca che può davvero vincere. E sarebbe il sogno più grande».



Un tempo i velisti non volevano le donne in barca, dicevano che portano sfortuna. Il suo prodiere è Caterina Banti: chi comanda tra voi due?
«Dipende, a terra senza dubbio lei: io non ho nessuna voce in capitolo. Quando siamo in acqua ovviamente comanda chi ha il timone in mano».

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