Cara Francesca,
non posso che essere d'accordo con te. Siamo peggiorati. Ci siamo raffreddati e manteniamo questa bassa temperatura, questa indifferenza. Una volta erano gli anziani quelli impegnati in questa attività: stare fermi ad osservare i lavori in corso, al bordo dei cantieri, al di là delle transenne e dei sigilli, immobili e severi lì a contemplare con le braccia incrociate al di sopra del fondoschiena e l'atteggiamento impassibile. Una maniera come un'altra di ammazzare il tempo, forse, di vincere la noia della tarda mattinata o del tardo pomeriggio o, semplicemente, della tarda età, quando finalmente arriva l'agognato tempo della pensione e ti accorgi che hai atteso tutta la vita qualcosa che non valeva la pena attendere. Perdona la digressione poetica, che forse non è proprio da me. Ma non posso esimermi dal riflettere sul fatto che siamo diventati un popolazzo di guardoni, giovani e vecchi, vecchi e giovani. Non stiamo più affacciati alla finestra che dà sul cortile condominiale per seguire ogni singolo movimento dei vicini, però stiamo sui social network, dove documentiamo tutto quello che ci accade e che accade intorno a noi. Tanta attenzione dovrebbe forse tradursi, ma solo in un mondo ideale, in maggiore cura verso il prossimo; invece, nel mondo reale, essa, per un meccanismo bizzarro, si trasforma in indifferenza esasperata, mancanza di empatia, distacco emotivo. Prendiamo per esempio quanto si è verificato qualche giorno addietro a Mestre, dove un bus è precipitato dal cavalcavia, incidente che ha prodotto 21 morti e 15 feriti. La gente è accorsa in un nano secondo non per aiutare bensì, sfoderato il telefonino dalla tasca, per avere il merito di documentare e postare in tempo reale la scena apocalittica sulla rete. Quindi davanti alle fiamme, ai lamenti, al sangue, tutto ciò che riusciamo a fare è non scomporci affatto e accedere alla videocamera dello smartphone con gelo raccapricciante. Non è la prima volta che questo avviene e non sarà l'ultima. Succede sempre. Ormai è un nostro vizio, una nostra deformazione, una nostra malattia, o mania: dobbiamo registrare. Di recente ho visto un servizio giornalistico su una processione religiosa. Le persone non pregavano, non stavano raccolte in loro stesse, non tenevano le mani giunte, ma tutte avevano il braccio destro sollevato verso il cielo e con la mano destra impugnavano il cellulare allo scopo di filmare, con gli occhi puntati sul display, il passaggio dell'effige sacra. Se non fosse stato per quest'ultima avremmo potuto credere che fosse in corso la marcia su Roma. Urge una presa di coscienza. Disconnetterci dal web per riconnetterci alla realtà, al fine di non smarrire in modo irreversibile la nostra umanità, o quel che ancora ne resta. L'esubero di video di eventi sanguinari, drammatici e nefasti, paradossalmente, ci infonde la percezione che quello che vediamo non sia realistico ma più cinematografico. Forse da qui la nostra presa di distanza.
C'è un altro documento-video che sta girando sulla rete: una ragazza, in Iran, picchiata selvaggiamente dalla polizia morale tanto da essere ridotta in fin di vita per non avere indossato correttamente il velo, viene abbandonata accanto al binario della metropolitana prima che il treno riparta. Tale spettacolo come può lasciarci indifferenti? Forse perché si verifica lontano dal luogo in cui viviamo? Questo non basta. Questo non giustifica il nostro silenzio. Eppure nessuna femminista insorge, come se le donne non fossero tutte uguali, come se una iraniana valesse meno di una europea, oppure occidentale in generale. Prova a togliere la vocale a sostituendola con una o e vedrai scatenarsi l'orgoglio femminista.
Quando poi una fanciulla viene trucidata poiché ha una ciocca di capelli fuori posto, ecco che le femministe nostrane diventano come quei nonni che osservano i lavori nei cantieri con espressione apatica e imperturbabile.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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