Autocritica a sinistra: «L’errore fatale? A Livorno nel 1921»

Autocritica a sinistra: «L’errore fatale? A Livorno nel 1921»

da Roma

Ricomincio da tre. Per cento.
Fosse un’opinione, l’aritmetica, Rifondazione comunista ne rappresenterebbe il maggior centro di studi teoretici. Essendo l’umile capacità di mettere in fila numeri reali, si comprende come c’entri poco o nulla con i compagni rifondatori. Nella stessa giornata due assemblee, una a Firenze e un Comitato politico a Roma, danno vita a un dramma di equivoci e ambiguità degni piuttosto del gioco delle tre carte. In ballo la gestione del gestibile e il rilancio di un partito ancora tramortito. Chi fosse interessato alla strada da seguire ricorra invece alla nota teoria del caos.
Non c’è più Fausto Bertinotti, e si nota la mancanza di eredità. I consigli da lui dispensati vengono tradotti dai suoi uomini, e sembrano tendere soltanto a tenere in piedi la baracca per tenere in piedi un gruppo dirigente (fino a ieri succube). Il segretario Franco Giordano si presenta dimissionario assieme all’intera segreteria, e annuncia un comitato di garanti da votare su mozioni che conduca al congresso del prossimo 10 luglio. Un modo per salvare il salvabile, nonostante lo spettro dell’ennesima scissione abbia aleggiato fino a notte inoltrata. Con un ribaltone delle ultime ore, Giordano nega di voler sciogliere Prc (come Bertinotti), fa sue le proposte degli oppositori, e cerca di spingerli a uscire allo scoperto o mangiare la minestra. «Non siamo nati ieri», trasecola Russo Spena, fino all’altro ieri fedele e capace esecutore della linea bertinottiana.
Non è questa l’unica ambiguità che rischia di far restare la pattuglia, per i prossimi trent’anni, extraparlamentare. Uno dei due candidati alla segreteria, Paolo Ferrero, nega persino di esserlo: «Il problema non è affatto questo, ma discutere con tutte le garanzie possibili su che cosa sia successo... ». Il discorso precipita sui bolsi luoghi comuni, già visti e sentiti mille volte: «Dobbiamo porci il problema di costruire percorsi dove ci stiamo tutti, partiti, associazioni, comitati, singole persone che vogliono partecipare. I partiti sono necessari ma non sufficienti, e la sinistra è molto più larga dei partiti». Alle urne gli elettori non paiono essersene però accorti.
Ferrero comincia la sua lunga marcia immaginando di rinserrare le fila del partito con una «troika» di garanti che lo conduca fino al congresso (lo dice anche Giordano); di aprirsi ad altri (come la Sinistra europea, altro progetto bertinottiano già fallito per mancanza di interlocutori); di dire no alla Costituente dei comunisti proposta da Diliberto (lo dice anche Giordano). Coerentemente, Ferrero presenterà oggi un documento assieme al leader della minoranza più corposa, quella di Claudio Grassi, che vuole ripartire da falce e martello e guarda alla Costituente dei comunisti con occhi benevoli. Prova ne sia un’e-mail ai suoi, indirizzata per errore anche a qualche bertinottiano, nella quale l’approdo nelle braccia di Diliberto verrebbe agognato. Tutto chiaro, dunque: si alleano due anti-bertinottiani, dei quali uno vuole fare le stesse cose di Giordano, l’altro l’esatto contrario.
Il secondo dei «papabili» per la segretaria è «San» Niki Vendola, che a Firenze infiamma la platea per una volta senza neppure citare Pasolini. «Sorvegliate le parole, nelle prossime ore», suona la predica. Essere «cauti», «avere amore per questa comunità e consentirle di rialzarsi in piedi». Niente «capri espiatori e colpevoli, siamo tutti colpevoli». Eureka, nessun colpevole e si ricomincia, niente vincitori né vinti. Con chi sta Vendola? Ovvio: «Totalmente d’accordo con Giordano». Per andare dove? «Verso il socialismo del XXI secolo». Aldo Tortorella propone almeno di ripartire «dal congresso fondativo del Partito socialista del 1892, superando la scissione del ’21», e Paul Ginsborg vuol rinascere da Vittorio Foa e Riccardo Lombardi. Ma nella sala Frentani di Roma sono tutti comunisti, e Ramòn Mantovani indica come maggior colpa di Bertinotti quella di aver detto che il comunismo è «una tendenza culturale».

Nella sala dove non c’è un solo drappo della Sinistra Arcobaleno, sono in molti ad annuire con il capo. Pochi hanno pure la forza di applaudire. Che bello: morto il comunismo, se ne fa un altro. Stavolta potendo persino toccare con mano il fresco cadavere.

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