Caro Papà, mi hai insegnato che la bellezza e il fascino della vita consistono nell'impossibilità di prospettare che cosa accadrà. Mi ripetevi spesso: «Le penserai tutte, cercherai di prevedere l'imprevedibile e poi succederà la cosa che anche la più creativa delle menti non poteva immaginare, perché la realtà supera di gran lunga la fantasia».
Mai avrei pensato a distanza di sette anni dalla tua scomparsa, che segnò la fine di un'avventura terrena tanto piena quanto avvincente di ritrovarmi a scriverti una lettera dopo aver visto calpestata la tua memoria, e quella di molte altre persone che non ci sono più, e aver visto svilita la magnifica storia imprenditoriale della nostra famiglia. Tutto ciò è surreale, ed è anche molto ingiusto, giacché, in fondo, a pagarne il prezzo in tutti i termini sei tu.
Che la nostra sia una famiglia particolare, senz'altro litigiosa, è un fatto, anche per la ricerca di quei valori che furono i pilastri della rivoluzione industriale e per le continue lotte per il controllo dell'azienda. Tu stesso dovesti prenderne amaramente atto, redigendo il testamento davanti al notaio: «Famiglia non ci sarà. Ma almeno non ci saranno le lotte. O saranno inutili, le aziende non saranno dilaniate». Avevi previsto le lacerazioni e avevi predisposto affinché l'Esselunga ne fosse preservata. Così è stato.
Oggi ognuno, per la propria sopravvivenza, per colmare un dolore, per inseguire una pace interiore, potrebbe crearsi delle personalissime verità. Ma più avanzo con gli anni e più mi rendo conto che le famiglie perfette sono rare. Ciò che differenzia la nostra dalle altre è il bisogno inconsulto di scrivere, di recriminare, di mostrare in piazza faccende private che agli altri, al grande pubblico, interessano ben poco. È una triste deriva da cui dovesti difenderti in vita, come attesta una tua lettera intitolata «A tutti i membri della famiglia Caprotti e qualche relative», datata 16 dicembre 2012: «Per quanto mi concerne, dichiaro che non tollererò ulteriormente l'accusa di avere distrutto la nostra famiglia. Le cose stanno come dirò e se questa campagna di maldicenza, di bugie e di fango di Giuseppe e di Claudio Caprotti non cesserà, io porterò alla pubblica conoscenza la verità». Giuseppe, tuo figlio. Claudio, tuo fratello, che con i suoi atti, nel lontano 1972, fece esplodere la famiglia; tutto il resto ne è conseguenza. (...)
Sei stato un grandissimo imprenditore, e l'Esselunga resta permeata di te, del tuo maniacale perfezionismo, della tua politica visionaria, della tua prudente, e al tempo stesso azzardosa, lungimiranza. Eri ossessionato dal dettaglio di ogni cosa. Ripetevi: «Le détail c'est une question de détails». Sei stato un grande, un fuoriclasse. Sei stato senza dubbio anche un padre complicato, a tratti burbero e duro, decisamente irascibile, esigentissimo con te stesso fino al limite del masochismo e con gli altri, però con delle tue tenerezze. Ti hanno dipinto come capriccioso e scortese, ma io ogni giorno incontro in Esselunga fornitori, collaboratori, professionisti che hanno felicemente lavorato con te per decenni, che mi raccontano stupefacenti storie sul tuo conto, che si commuovono parlando di Bernardo Caprotti. Persone che ti restano ancor oggi devote come tu fosti devoto a loro. Persone cui hai riservato sensibilità straordinarie. Sei stato intransigente sui principi di fondo, ma hai anche dimostrato una pazienza immensa di fronte alle avversità, quelle che solo i più temprati dalla buona educazione e dalla fatica quotidiana riescono a sopportare. Forte, coraggioso e molto solo. Teste come la tua viaggiano a un'altra velocità; teste impazienti, intolleranti delle lentezze, delle piccolezze, delle futilità. Ho avuto la fortuna d'incontrare vari imprenditori, dei settori più disparati. Io vi considero una razza a parte, perché siete davvero diversi, ognuno con delle particolarità uniche. (...)
Ti consumava l'affanno dell'alzare di continuo l'asticella. Il traguardo ti terrorizzava. «Nella vittoria sta la chiave della sconfitta», ci dicevi, per ricordarci di non abbassare mai la guardia, di non lodare mai sé stessi. Ti ispiravi a von Clausewitz nelle tue battaglie. (...)
Il denaro per te è sempre stato un mezzo, non un fine. Era solo uno strumento per investire e progredire. Non l'hai mai usato per concederti lussi e svaghi, che, del resto, nella tua diuturna presenza nella sede dell'Esselunga a Limito di Pioltello primo ad arrivare, ultimo ad andartene nemmeno ti sarebbero stati concessi. Eri frugale, attento al centesimo, ma capace di grandissima generosità. Eri anche un po' ribelle. Non ricordo quante volte, parecchie, rifiutasti cavalierati del lavoro, ambrogini d'oro e altri nastrini e commende, forse perché con le tue origini brianzole, ma in parte anche francesi, non ti identificavi in queste stereotipate liturgie nostrane. Eri timido, schivo fino all'eccesso. Lo so, molti stenteranno a crederci. Ma eri davvero così. (...)
Sapevi sempre tutto di tutto, si faceva fatica a tenere il passo con la tua conversazione brillante, intensa. Disprezzavi profondamente la superficialità, la frivolezza, la mondanità.
Caro Papà, credo che l'unica figura in cui ti saresti volentieri riconosciuto sia quella del calvinista che il tuo amico Indro Montanelli tratteggia nel suo libro L'Italia della Controriforma, e non per nulla la proprietà che in assoluto ti era più cara lo hai lasciato scritto nel testamento fu il castello di Bursinel, in Svizzera, su quel lago Lemano nel quale si specchia Ginevra, la città in cui morì Giovanni Calvino, il riformatore che fece del rigorismo morale la sua dottrina.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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