Gentile Direttore,
innanzitutto grazie per lo spazio che Il Giornale sta dedicando in questi giorni al dibattito sulla «questione giovanile » in Italia. Partirei proprio da qui: davvero c'è qualcuno che può negare l'esistenza, oggi, nella nostra nazione, di una «questione giovanile»? In quale altro modo si potrebbe definire il combinato disposto tra la più alta disoccupazione giovanile dal dopoguerra, la precarietà dei più consueti rapporti di lavoro, gli stipendi che per la prima volta decrescono rispetto agli anni precedenti, il costo della vita che viceversa continua a crescere, la pressione fiscale che non molla di un centimetro rendendo vane le nuove idee imprenditoriali, un sistema pensionistico impostato su base retributiva che evidentemente restituirà ben poco del pochissimo che già si sta guadagnando oggi? Vogliamo chiamarla diversamente perché la tiritera sulla «questione giovanile» ci ha ormai stufato? Per me va benissimo. Sono terribilmente allergica alla retorica. Purché si abbia l'onesta intellettuale di riconoscere che al di là dei termini giornalistici o politichesi e di alcuni vizi generazionali figli del benessere acquisito, c'è un problema da affrontare. E possibilmente risolvere. Come giustamente faceva notare una lettrice nei giorni scorsi, magari fossero solo quelli della disoccupazione o della scarsa propensione ad accettare lavori poco «nobili », i nemici da sconfiggere.
Troppi «under 40» (40!), mentre sto scrivendo questa lettera, sono al lavoro come stagisti o con un contratto a progetto, o come avvocati, o come giornalisti, dannandosi l'anima per uno stipendio che va tra i 350 e gli 800 euro. Senza possibilità di migliorare la propria condizione in futuro, considerati come reietti dalle banche quando timidamente si affacciano allo sportello per chiedere un mutuo. Poi ci sono i disoccupati. Tanti, tantissimi. Alcuni se ne stanno indolenti tra le braccia di una famiglia eccessivamente protettiva, ma molti altri si sbattono tutto il giorno tra un colloquio e l'altro, sperando di mettere a frutto le proprie capacità, i propri studi. Qualcuno vuole dargli torto? Lo faccia, io non me la sento. Nonostante sognassi di fare l'interprete linguistica, dopo il diploma in lingue con 60/sessantesimi, mi sono trovata un lavoro come cameriera per dare una mano a casa, rinunciando all'università, dedicandomi successivamente al giornalismo e continuando a fare politica. Detto questo, rinunciare a quanto studiato per anni in cambio della prima occupazione disponibile è certamente comprensibile, ma non augurabile a nessuno. Insomma, la «questione giovanile » non è un vezzo o un'invenzione. Il fatto che si estenda a più di mezza Europa o sia aggravata da un contesto di crisi internazionale, non ci esime dal trattarla per quello che è: un'emergenza epocale. Per queste ragioni, insieme con i colleghi di governo, ci stiamo consumando nel tentativo di proporre soluzioni efficaci. Il primo punto è stato quello dell'istruzione. Penso alle riforme della scuola e dell'università.
C'è poi l'orientamento al lavoro. Se nel momento della scelta decisiva per la propria vita, ognuno avesse ben chiaro verso quali prospettive di guadagno o di occupabilità si sta muovendo, credo che avremmo molti più idraulici, ingegneri o infermieri e meno laureati in materie forse più affascinanti, ma certamente meno utili alla realizzazione della propria indipendenza economica. Ancor più complessa è la questione legata ai contratti di lavoro. L'abuso di tipologie contrattuali nate per favorire il primo approccio con il mondo del lavoro o la necessaria flessibilità delle aziende, va affrontato con grande determinazione. Lo ha fatto benissimo il Ministro Sacconi, riformando il contratto di apprendistato e mettendolo al sicuro dalle speculazioni. Lo ha fatto il Ministero della Gioventù con alcune delle iniziative contenute nel pacchetto Diritto al Futuro, come quelle con cui si aiuta la stabilizzazione con contratti a tempo indeterminato dei giovani genitori. Nello stesso insieme di misure abbiamo inserito il fondo di garanzia per l'acquisto della prima casa, la compartecipazione finanziaria al 40% per le idee capaci di diventare impresa grazie all'interesse di enti privati e fondazioni pubbliche. Ma ancora molto c'è da fare. Stiamo lavorando duro per offrire ai giovani italiani le opportunità per realizzare le proprie legittime aspirazioni. In questo senso, per rispondere alla provocazione di Mario Giordano, non penso che questi abbiano granché bisogno di «calci nel sedere», non foss'altro perché già ne prendono abbastanza dalla società. A differenza di altre generazioni del passato, i giovani di oggi non chiedono aiutini di Stato, il 6 politico o i privilegi di cui hanno goduto altri.
Ma una cosa è certa, nessuno di loro disdegnerebbe, me compresa, di rifilare qualche calcio nel sedere a quei politici e sindacalisti che negli anni belli dell'economia hanno pensato bene di mandare le persone in pensione a 40 anni o hanno messo insieme il secondo debito pubblico più grande del mondo. Lasciando il conto da pagare a chi sarebbe venuto dopo. A noi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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