La Banda Tassotti

Lo sgangherato e affannoso tentativo di comporre la Finanziaria, fra veti, resistenze e minacce, aiuta a definire meglio questa fase della storia italiana: se il quinquennio della Casa delle libertà è stato il primo tentativo di attuare una rivoluzione liberale, oggi il governo di Romano Prodi è solo impegnato ad attuare una controrivoluzione. Eppure c’era chi aveva scommesso sull’Unione, sul suo immaginario riformismo e su una vocazione modernizzatrice, confidando ancora nella vecchia legge, ormai obsoleta, secondo la quale è la sinistra a realizzare ciò che la destra vorrebbe ma non può fare. L'illusione è rapidamente svanita. Tommaso Padoa-Schioppa era stato accolto come il sicuro artefice dei tagli alla spesa pubblica e della razionalizzazione. Le forbici si sono spuntate e riappare, accresciuto, l'enorme divario con le medie europee in tutti i settori della pubblica amministrazione. La lotta all'evasione fiscale era stata presentata non solo come un'«emergenza democratica», ma come la soluzione finale del problema della distribuzione delle risorse.
Dopo il decreto Visco, la prima tentazione è invece quella di aumentare le aliquote, in aperta contraddizione con i pur lievi ritocchi al ribasso dell'era Berlusconi, mandando al contribuente il messaggio che è meglio farsi furbi. Era stata promessa un'unione nell'interesse del Paese, mentre ogni ministro alza la voce per difendere le sue competenze. E si può continuare.
Riemerge, giorno dopo giorno, la cultura del Novecento statalista, quella che ha portato l'Europa al ristagno più preoccupante della sua storia e l'Italia alla netta divisione fra coloro che producono ricchezza e coloro che invece la consumano. La si potrebbe definire restaurazione. Ma non si può, perché nel frattempo c'è stato quel tentativo di rivoluzione snodatosi tra il 2001 e lo scorso aprile. Il paradosso è che solo adesso si può misurare davvero il peso del cambiamento avviato dalla Casa delle libertà. È stato lento, è stato contrastato, abbiamo faticato ad accorgercene, ma è stato ben più convincente di quanto non abbia detto il risultato elettorale. E soprattutto - lo si vede ora, ogni volta che si annuncia la cancellazione di una riforma - ha indicato la strada ad una società che vuole essere meno imbrigliata e più competitiva, più responsabile e meno assistita.
Ma è giusto parlare di controrivoluzione e non di restaurazione, perché Prodi e i suoi alleati vogliono cancellare non solo le riforme, ma lo stesso spirito del cambiamento. Il centrosinistra non è più la coalizione paralizzata dall'eterno conflitto fra la sua anima massimalista e quella moderata, che abbiamo visto negli ultimi anni. È ormai l'espressione di una cultura e di una politica della paralisi sociale ed economica. L'Unione sa parlare solo il linguaggio delle minoranze che hanno paura di ogni innovazione e di ogni modernizzazione. Delle minoranze che vogliono tenere l'Italia bloccata in ogni suo ritardo, dalla scuola che ha il maggior numero di insegnanti per studente al disincentivo fiscale per coloro che vogliono lavorare di più, fino al trucco contabile di ridurre la spesa dello Stato centrale per aumentare quella di Comuni e Regioni. Fino al progetto di nazionalizzare la Telecom.
Sapevamo di non vivere in un bipolarismo normale.

Ma quel che si sta vedendo in questi giorni ci aiuta a leggere meglio la natura più profonda del conflitto politico e culturale in atto: ad un inizio di rivoluzione liberale sta seguendo un vero e proprio tentativo controrivoluzionario. Il cui esito - è facile prevederlo - sarebbe solo quello di paralizzare l'Italia.

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