Le due mostre che, in queste settimane, Milano dedica al suo grande figlio, Gabriele Basilico, nel decennale della scomparsa, sono un'occasione da non perdere per conoscere non soltanto uno dei giganti della storia della Fotografia, ma per interrogarsi su cosa significa "vedere".
Quand'è che noi vediamo davvero? Cosa ci fa uscire da uno stato di cecità profonda, che ci accompagna (tutti, anche i grandi fotografi) ogni ora del giorno? Trovandomi a essere tra i collaboratori di una delle due mostre - quella dedicata interamente a Milano, con sede alla Triennale - vorrei qui soffermarmi sul''altra, ospitata nella splendida Sala delle Cariatidi a Palazzo Reale e dedicata alle città del mondo.
È una mostra che aiuta moltissimo in quella difficile arte fuori moda che è il pensiero. La domanda è: quand'è che, guardando, noi vediamo? Quand'è che lo sguardo diventa visione? Quand'è che un'occhiata cattura un'immagine? E poi, nello specifico: nel realizzare una grande, vera fotografia (ossia una visione) viene prima l'occhio del fotografo o la tecnica fotografica?
La difficoltà nel rispondere sta, paradossalmente, nella semplicità della risposta. Le nostre parole non sanno catturare le cose semplici. Le immagini di Gabriele Basilico sono semplici, nel senso che sono come devono essere: non importa se sia l'occhio a comunicarlo alla macchina, o se la macchina non abbia a sua volta qualcosa da insegnare all'occhio (un imprevisto, una difficoltà tecnica capace di arricchire in modo imprevedibile quello che l'occhio ha visto).
Viene il momento in cui diciamo: ecco!, e questa è la visione. Ma occorre un grande lavoro, una coscienza piena e naturale (qualcosa di simile a ciò che Heidegger chiamava «visione circostante preveggente») per raggiungere questa semplicità. Le immagini urbane di Basilico, molto ben presentate, ossia presentate in modo adeguato, nella mostra di Palazzo Reale, raccontano con precisione il cammino dell'occhio umano in direzione di quella che è forse la creazione più tipica, più universale, più espressiva della natura umana: la Città.
La mostra si potrebbe titolare: dalle città alla città. Senza voler dimostrare nessuna tesi, in pura obbedienza alla sua vocazione documentaristica, Basilico accosta sempre, nei suoi ritratti di città, le due dimensioni contrarie: l'unicità di ogni città da un lato e, dall'altro, il loro confondersi verso un'unica realtà - la città, appunto, nel suo misterioso ripetersi tra culture, processi storici, distruzioni, ricostruzioni. La differenza muove verso l'identità, che tuttavia pullula di differenze. Le differenze più evidenti sono quelle relative al terreno, ai suoi movimenti, alle sue ondulazioni, e al rapporto mai del tutto prevedibile che questo fattore stabilisce con altri fattori: la ricchezza, il costo, le distanze, la politica, e così via.
Pezzi di città si modellano su questi rapporti volatili, mai fissi, che anche una ferrea pianificazione (come per esempio in Cina) può in qualche modo contenere ma che si possono documentare anche nel paesaggio più ordinato.
Emergono così dei caratteri peculiari, che si potrebbero riassumere per gioco in una sola parola: Montecarlo claustrofobica, Shanghai frattalica, Rio de Janeiro struggente, Roma pittorica, Beirut clandestina, Mosca sorniona, Tel Aviv disperata. Ciascuno scelga l'aggettivo che preferisce.
Colpiscono, in questo senso, una grande Istanbul notturna, distesa nella sua infinita ondulazione; oppure una Shanghai a scatole cinesi (innumerevoli grandi palazzi residenziali tutti simili che assediano un'area di palazzi più piccoli, che a sua volta racchiude un'area più piccola di antiche case cinesi - tutto sistemato a perpendicolo, secondo i percorsi delle anime dei morti); o ancora una Mosca che, messa di sghembo, rivela un ordine quasi non umano. Il tutto alternato ai grandi b/n con i classici ritratti di Porto, della Normandia, di Beirut.
Ma questo è solo l'inizio. Le differenze sono il dato, l'esperienza iniziale di un cammino che porta lontano, nelle periferie fisiche e in quelle metaforiche, dove le scuole architettoniche passano nelle mani dei geometri e dei muratori spesso maldestri, dove il progetto sbagliato e quello giusto contribuiscono ciascuno al 50%, dove il bisogno di abitare - strano concetto che unisce in un solo sguardo pubblico e privato comunità e solitudine, animale politico e animale pensante - mescola e rimescola le carte, fino a fare di Bari una specie di Berlino, a sposare Londra e Barcellona, a fare di San Francisco una gemella di Tel Aviv e di Pechino. Le stesse necessità - muoversi, mangiare, dormire, riprodursi - producono quelle somiglianze che introducono a un mistero difficilmente svelabile. Guardando queste immagini senza rinunciare a pensare (questo voleva Basilico) piano piano la parola città e la parola uomo si accostano fin quasi a sovrapporsi.
E si comprende come l'errore, lo sbaglio abbia alla fine un peso maggiore rispetto al progetto perfetto, all'idea realizzata in toto. Forse perché non solo l'arte (come diceva Testori) è uno sbaglio ma anche la nostra vita, le nostre decisioni, i nostri obiettivi.
E forse perché lo sbaglio è tante volte il più grande artefice di novità e di bellezza, almeno finché stiamo su questa povera Terra. Lo si vede oggi più che mai, quando uomini perfettamente persuasi di fare la cosa giusta vanno bagnando il mondo di sangue innocente.
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