Benetton «Fabrica» il futuro dell’arte

Il «laboratorio del talento» voluto dall’imprenditore trevigiano ospite al Centre Pompidou di Parigi. In mostra 10 anni di idee e percorsi avveniristici

Vittorio Macioce

Tutto cominciò con un viaggio in un giorno di novembre. Madame Jousset prenotò il volo Parigi-Milano. In qualche modo sarebbe arrivata a Ponzano, un graffio sulla cartina geografica, il paesino alle porte di Treviso, lì dove il giovane Luciano Benetton e la sua famiglia cominciarono a colorare la lana e a tessere maglioni, come marchio scelsero un gomitolo stilizzato. Sono passati, da allora, quarant’anni.
Madame Jousset si chiama Marie-Laurie e lavora al Centre Pompidou, il museo di arte moderna. Qualcuno le ha parlato di Fabrica. È lì che è diretta. L'autostrada verso Nord Est, poi Treviso, poi terra, terra, casolari, campagna, piccoli paesini senza piazza, verde, deserto, pioggia. Il tassista chiede: «Sta andando dai Benetton? Dove. La villa di Ponzano o Fabrica?». Fabrica, risponde Madame. I cartelli stradali indicano Catena, frazione di Villorba. È qui, nel Veneto più profondo, dove gli operai - si racconta - girano in Mercedes e Bmw come i loro padroni, che c’è la casa del talento dei Benetton. L'officina, la bottega, il laboratorio creativo che dieci anni fa Oliviero Toscani definì «una piccola, piccolissima Bauhaus».
Marie-Laurie Jousset ha una proposta indecente. Il suo museo, il centro Pompidou, il tempio della creatività contemporanea, vuole allestire una mostra su e con Fabrica. Vuole le loro opere, vuole il loro talento, vuole ospitare per un mese, dal 6 ottobre al 6 novembre, un sogno che dura da 10 anni. Il titolo sarà: Les Yeux Ouverts.
Come si può spiegare Fabrica a chi non sa cos’è. È un’università? No. Non proprio. Immaginate. Ti aspetti un capannone industriale, qualcosa di ultramoderno, senti invece solo la voce degli uccelli e vedi un casolare che da lontano potrebbe anche ricordare il mulino bianco e invece è un miracolo di contaminazione culturale. Il casolare è una villa palladiana del Seicento e si specchia nell'acqua. È il Nord Est italiano che si riflette sull'etica giapponese. O viceversa. L'architetto è Tadao Ando. Una serie di colonne alte sei metri tagliano trasversalmente la struttura. Non sorreggono niente. È una magia. È questo il segreto. Fabrica è la cosa che più si avvicina alla scuola per maghi di Harry Potter. È Hogwarts. Ogni anno ospita quaranta creativi under 25, vengono qui da tutto il mondo per sperimentare nuove forme espressive. «Se ti aspetti una scuola - dice Alfio Pozzoni, il capo progetto della mostra Pompidou - resterai deluso. Qui non ci sono lezioni. Qui i ragazzi pensano e lavorano». I ragazzi sono divisi in «case», come a Hogwarts: pubblicità, musica, design, grafica, cinema, editoria.
Qualcuno è fuori, al gelo, a fumare. La lingua ufficiale è l'inglese. Il dialetto è un italiano in salsa veneta. È qui che nascono le campagne pubblicitarie di Benetton e di altre aziende. Al muro c'è il manifesto della mostra di Canova. Ti aveva già colpito. Non sapevi che fosse opera dei ragazzi. Oscar Vulpinari è il responsabile della comunicazione visiva. Ti mostra il volume che raccoglie dieci anni di pubblicità nate, vissute, colorate, pensate, qui, in questi spazi, in queste mura. Il titolo è Fabrica. From Caos to Order and back. Dal caos all'ordine e ritorno. Sono spesso campagne sociali, contro il razzismo, contro l'aids, contro chi violenta i bambini, chi picchia le donne, chi non ti ascolta, contro il nero, la notte dell'anima. Ci saranno anche loro a Parigi.
Il Pompidou mette a disposizione 800 metri quadri. Fabrica: les yeux ouverts è la caccia a un futuro possibile. È l’estetica che verrà. È il segno di un progetto senza fine, una ciurma di argonauti che naviga di porto in porto senza fermarsi mai, quello che resta sono i bagagli lasciati a terra, come testimonianza della loro ricerca. La mostra si divide in quattro sezioni. La prima è la comunicazione visiva, quelle pubblicità che sono appunto un pugno allo stomaco per la nostra morale. La seconda, curata da Enrico Bossan, si chiama I see. Sono reportage fotografici, testimonianze dai luoghi più remoti della terra, lettere e memorie di persone che vivono in luoghi dove la libertà d’espressione è negata. La terza sezione è davvero il futuro. Andy Zameron è il direttore creativo delle sperimentazioni interattive. Lui ti racconta che l’arte è dialogo. L’artista crea, ma il pubblico, lo spettatore, interagisce con la sua opera, la fa sua, la modifica, la rende caos creativo. L’arte può essere una telecamera dietro la vetrina di una mappa di negozi sparsi per il mondo, dove ogni passante lascia la sua orma, le sue parole, il suo pensiero in un patchwork di razze, volti, culture frullati dalla logica random di un computer. L’arte del XXI secolo è il videogame, il giocattolo sdoganato. È lì che nascono le storie. È lì che ha trovato rifugio l’epica, quando il cinema e la letteratura l’hanno ripudiata. È lì che c’è il segno dell’estetica contemporanea. Un’estetica molto più antica di quanto si pensi. Al Louvre, nascosto tra altri capolavori, c’è una natività di un certo Fra’ Diamante, un allievo di Filippo Lippi, un pittore quasi dimenticato della metà del ’400. Guardate quella Natività, guardate il muro grigio dietro la capanna, con un ramarro verde che vi scivola sopra. Guardate i colori, guardate i blocchi di muro. Hanno qualcosa di terribilmente moderno.

Hanno la stessa estetica dei paesaggi di Lara Croft. Quel muro e quei colori sono un videogame disegnato al confine del Medioevo. Madame Jousset ha visto e capito: Parigi o Ponzano non cambia nulla. La modernità è solo un colpo d’occhio.

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