Benetton: «Raddoppiamo in India L’Europa è al top del suo sviluppo»

«Il nostro benessere non è migliorabile, quello di altri Paesi sì: lì dobbiamo puntare»

Maria Grazia Coggiola

da New Delhi

È reduce dalle strade alluvionate di Chennai e dal lazzaretto di Madre Teresa di Calcutta, ma Luciano Benetton non ha perso il suo aplomb. E neppure il suo entusiasmo sul miracolo economico dell’India e della Cina, dove ci sono due miliardi di consumatori ansiosi di vestirsi con jeans e maglioni colorati. Solo chi ha capito le enormi potenzialità di questi mercati emergenti riuscirà a sopravvivere nella giungla della globalizzazione. Il gruppo di Ponzano Veneto lo aveva intuito già 15 anni fa quando ha aperto i primi negozi in franchising a Delhi e Bombay. Ma allora l’India era ancora quella dei “dhoti”, la pezza di cotone bianco indossata dal Mahatma.
Lo incontriamo a colazione, alle 8 in punto, seduto a un tavolo dell’ultramoderno Trident Hilton, nella città satellite di Gurgaon, «uno degli hotel più belli che ho visto». Uno dei simboli di una nuova India che sta cambiando in fretta, come racconta in questa intervista al Giornale.
Ha appena terminato un tour in cinque metropoli indiane dove ha incontrato commercianti, consumatori, giornalisti. Come si sta trasformando l’India?
«Un anno fa il cambiamento non era così evidente. Ho notato che la classe medio-alta ha più fiducia. C’è un ottimismo che si legge molto bene nella società e che aumenta giorno dopo giorno».
Cosa che non si vede più in Europa, messa in ginocchio dalla competizione cinese...
«Sì la Cina preoccupa e stimola tutti. Non è una soluzione quella di erigere barriere o proibire la circolazione dei prodotti. Le nostre imprese devono diventare più brave, devono accettare il fatto che nulla è definitivo, che possono essere disturbate da eventi esterni e che devono quindi mettere in preventivo rischi da correre. Solo chi ha capito questo in tempo si salverà».
Chi vincerà la sfida, India o Cina?
«Finirà in pareggio. È vero che adesso l’industria italiana è più concentrata sulla Cina, ma è una semplice questione di moda. Prima o poi toccherà all’India. Penso che abbiano le stesse potenzialità».
Ma c’è davvero spazio per crescere tutti quanti? La crescita dell’Asia è sostenibile?
«Quello che si vede a Parigi in questi giorni significa che non si possono aprire le porte dell’Europa a milioni di disperati, ma bisogna aiutarli nei loro Paesi. Noi siamo arrivati alla fine del nostro sviluppo, credo che ormai la nostra qualità della vita non sia migliorabile. Non possiamo incrementare ancora il nostro benessere, abbiamo ottenuto molto. Quindi penso che ci sia spazio per aumentare il livello di vita di coloro che finora sono stati esclusi».
Quindi occorre andare dove i mercati crescono, e cioè India e Cina.
«Si va dove non si è mai stati. L’India vale due volte il mercato europeo. C’è bisogno di tutto. Un nostro cliente, che è concessionario di Toyota a Chennai, mi ha detto che vende 300 auto di lusso al mese e che intende raddoppiare il fatturato il prossimo anno. Siamo in presenza di Paesi che devono produrre di più, ma hanno bisogno del nostro aiuto e consulenza. Per questo è molto importante radicarsi e comportarsi come interlocutori di medio lungo periodo se si vogliono conquistare questi mercati. Noi siamo presenti in 120 Paesi e siamo arrivati in Cina e in India 15 anni fa».
Anche Fiat e Piaggio sono arrivate per prime in India, ma poi qualcosa non ha funzionato...
«Diciamo che all’epoca si pensava che per questi mercati bastassero impianti e modelli superati in Europa, ma da qualche anno non è più così. Nella moda, per esempio, il consumatore finale in India è al corrente delle ultime novità presentate a Parigi».
I vostri progetti in India?
«Raddoppiare i punti vendita nei prossimi tre anni portandoli a 100 e introdurre il marchio Sisley entro il 2007».
Oltre che come mercato di consumo, considera l’India anche come Paese dove delocalizzare?
« Noi produciamo per ora solo per il mercato indiano e da poco abbiamo iniziato a fare delle prove per esportare nei vicini Paesi asiatici. Quando il sistema industriale sarà efficiente e i volumi importanti vorremmo fare dell’India un polo per rifornire i mercati del Sudest asiatico e Paesi nuovi come l’Australia. Credo alla delocalizzazione, ma nel caso della moda è meglio rimanere vicini ai mercati. La moda viaggia a una velocità superiore, ha bisogno di riferimenti tempestivi. Per esempio, noi abbiamo prodotto in Italia, in Spagna, in Portogallo e adesso nell’est Europa, ma non possiamo spostare la nostra produzione in un altro continente».
Mai pensato di adattare il look Benetton ai gusti degli indiani?
«La moda nasce in Europa e l’Italia è il primo punto di riferimento. Le ragazze indiane vestono il sari, ma sempre di più comprano anche i jeans e giacche corte. Vogliono vestire come noi».
I giornali indiani hanno sottolineato con malizia che ha bisogno di un interprete inglese...
«La Francia e Parigi sono stati il punto di riferimento della mia famiglia, quindi abbiamo imparato prima il francese. L’inglese lo capisco, ma non lo parlo. Non è così poi importante, basta organizzarsi...».
Toscani... Qualche rimpianto?
«È un episodio ormai chiuso, ma è stato un periodo stupendo».


Ha visto l’ultima foto, la provocazione dei gay sul divano?
«No, non l’ho vista, ma penso ci sarebbe stata bene in una campagna Benetton. L’omosessualità è un argomento forte, centrale nel dibattito odierno, come l’Aids o la guerra. Sì, penso, ci sarebbe stata bene».

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